Intervista: João Pedro Stedile, dirigente del Movimento Sem Terra, parla della crisi politica.
Geraldina Colotti
A ridosso del penultimo voto del Senato sull’impeachment alla presidente Dilma Rousseff, abbiamo sentito João Pedro Stedile, storico dirigente del Movimento Sem Terra, in prima fila contro «il golpista Temer».
L’impeachment contro la presidente Rousseff è alle battute finali e si moltiplicano le manifestazioni. Qual è la strategia dei Sem Terra?
L’Mst ora partecipa a due fronti di lotta. Innanzitutto, siamo nel Fronte Brasile Popolare, a cui aderiscono oltre 60 movimenti e componenti di partito: per articolare un’ampia alleanza popolare di sinistra che si opponga al golpe istituzionale e organizzi manifestazioni. L’altro fronte è proprio dell’Mst e riguarda la riforma agraria. Prepariamo mobilitazioni nelle campagne, contro i golpisti. Indipendentemente dalla votazione finale contro Dilma, il 29 agosto, sicuramente la lotta delle campagne si intensificherà, aumenteremo mobilitazioni e occupazioni di terre. C’è un progetto di legge – che il governo golpista si è impegnato a portare avanti con i parlamentari della destra, ma che deve essere ancora approvato -, per liberalizzare la vendita delle terre brasiliane al capitale straniero. E’ un affronto. I movimenti contadini hanno minacciato che, se il progetto si converte in legge, ogni azienda venduta al capitale straniero verrà immediatamente occupata.
Voi avete annunciato la possibilità di uno sciopero generale. Ma vi sono le condizioni?
In questo momento così critico per la lotta di classe in Brasile, in cui la destra ci ha imposto un golpe parlamentare e ha espulso la presidente, possiamo solo incidere sui rapporti di forze reali e incrinarli con un’ampia partecipazione della classe operaia. Tuttavia, fino a questo momento sono scesi in strada soprattutto i giovani, le donne e i settori operai più politicizzati, i militanti, insomma. E questo rende difficile avere più forza per impedire il golpe. Per questo, stiamo discutendo con la base la praticabilità di uno sciopero generale. Tuttavia, il movimento sindacale incontra delle difficoltà, perché sono 28 anni che non si realizza nel paese uno sciopero politico. E la classe operaia, molto giovane, non ha esperienza.
E la destra? Quanta capacità di mobilitazione ha?
La forza della destra non sta nella piazza. Per le strade l’abbiamo sconfitta. Dicevano di battersi contro la corruzione, ma il gabinetto del governo golpista, come ha detto l’ex ministro Ciro Gomes, è un vero sindacato di ladroni. E’ di questi giorni la notizia che il ministro degli Esteri José Serra ha ricevuto tangenti da Petrobras per 23 milioni di reales attraverso l’impresa Odebrecht, nel 2010. E Temer è coinvolto. La destra è la più corrotta, ma la sua forza risiede nel potere monolitico che ha sulla stampa, nella televisione, nel potere giudiziario, e nella maggioranza del Congresso. Speriamo che i senatori abbiano un po’ di coscienza e arrivino a 27 per impedire il golpe nella votazione del 29 agosto.
Che importanza hanno i Giochi per il governo a interim?
Dal punto di vista politico, le olimpiadi sono state un fallimento, per la mancanza di legittimità dell’attuale governo: lo si è visto sia dalla scarsa presenza di capi di stato (i pochi presenti, per l’America latina, erano di destra), sia dai fischi in apertura dei Giochi. Penso che i presidenti che sono venuti lo abbiamo fatto soprattutto per interessi specifici, o per trascorrere qualche giorno di vacanza negli hotel di lusso a Copacabana.
Lei aveva anticipato che, dietro il golpe istituzionale, c’era la privatizzazione di Petrobras e la sua esclusione dalla gigantesca zona estrattiva del presal, che si sta verificando. Che succederà se Temer rimane in sella?
Il vero obiettivo del golpe in Brasile non era Dilma, che ha svolto un pessimo secondo man- dato, subalterno agli imprenditori. Il problema è che nella crisi profonda che viviamo in quanto economia periferica, dipendiamo dal capitalismo internazionale. E i capitalisti hanno bisogno di avere il controllo completo della situazione per imporre un piano neoliberista. Il progetto neoliberista è la sola forma che conoscano per proteggere i loro interessi e salvare unicamente se stessi. Il piano prevede l’applicazione delle misure classiche dei capitalisti in periodo di crisi, ossia: aumentare lo sfruttamento del lavoro con più disoccupazione, meno salario, allungamento della giornata di lavoro e perdita dei diritti storici; intensificare l’assalto alle risorse pubbliche da destinare alla salute, all’educazione, alla riforma agraria, e metterle al servizio dell’accumulazione privata del capitale; privatizzare le risorse naturali, che abbondano nel nostro paese, per trarne una rendita straordinaria che li aiuti a venir fuori dalla crisi, per questo stanno impadronendosi del petrolio nel presal, delle miniere, dell’acqua, della biodiversità e, come dicevo prima, vogliono anche le terre; privatizzare le ultime imprese statali in attivo, come quelle del settore elettrico, dei trasporti, dei porti e degli aeroporti. Questo è il piano che stanno attuando.
La crisi che attraversano le forze progressiste in America latina è anche crisi delle alleanze che hanno laureato i presidenti socialisti del secolo XXI e dei partiti costruiti dall’alto? E’ il parto travagliato verso un nuovo soggetto politico più definito?
Il problema del Latinoamerica è più profondo, non dipende dai partiti o dai governi. Nel periodo storico precedente il 2000-2015, c’è stata una disputa permanente nel continente fra tre progetti di sviluppo: il neoliberismo degli Usa, il neosviluppismo di Brasile, Argentina, Uruguay e il progetto di Chavez e dei sette paesi che vi aderirono. Però, negli ultimi tre anni, i tre progetti sono entrati in crisi. Tutto il continente, a dire il vero, è coinvolto in questa crisi. E non c’è nessuna proposta per uscirne perché la stessa borghesia è in crisi e cerca di aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice, come spiegavo prima. E né i popoli, né la classe lavoratrice hanno una proposta chiara per un nuovo progetto. Per questo, la crisi continuerà per molto tempo, fino a che in ogni paese le forze popolari arriveranno a costruire un nuovo progetto egemonico, che porti fuori i nostri paesi da questa situazione.
Come s’inserisce in questo quadro la situazione difficile del Venezuela nel Mercosur?
Il Mercosur non era già da prima una proposta di progetto di futuro. E’ sempre stato solo un accordo commerciale, da cui le imprese installate nei 5 paesi cercavano di trarre vantaggio per evitare di pagare le tasse. L’ideale per il Mercosur è quello di trasformarsi presto in un accordo economico della Unasur: precisamente per ampliare i legami di integrazione economica e politica dell’America del sud. Il problema è che il fallimento del Mercosur sta arrivando nella forma peggiore: quello di una crisi interna, con la destra che sta dominando in Argentina, in Paraguay e in Brasile e che ora vuole escludere il Venezuela. Però gli uruguayani si stanno comportando bene, stanno impedendo qualunque ritorno indietro contro il Venezuela. Tuttavia, ripeto, la soluzione non sta nel Mercosur, ma in un nuovo accordo più ampio, che avvenga nell’ambito dell’Unasur. In questo modo potremo risolvere problemi importanti per i singoli paesi e affrontare l’Accordo del Pacifico degli Usa. Però, per ampliare Unasur in questa direzione, dobbiamo frenare il golpe in Brasile e superare la crisi in Venezuela. E anche per questa formula, siamo un po’ in ritardo.
9 agosto 2016
il manifesto
Geraldina Colotti, “Un colpo di stato per rubare le risorse” pubblicato il 09-08-2016 in il manifesto, su [] ultimo accesso 10-08-2016. |