“Qui la gente non ha paura”, sorride il tassista mentre si apre la strada, troppo con lentezza esasperante, per le impossibili strade di El Alto, in direzione del centro di La Paz. “Non hanno paura”, ripete stringendo le spalle. Quasi un mantra con il quale sembra spiegare tutto, dal caos del traffico fino all’incredibile forza interiore delle donne -onnipresenti nella città aymara- che lavorano come formiche, caricando pacchi, facendosi carico della vita.
La città si mostra cambiata, soprattutto per l’asfalto impeccabile delle sue strade e gli edifici di quattro e cinque piani, i cholet, stile architettonico meticcio nato a El Alto per mano di una prospera borghesia commerciale aymara. Nessuno sembra allarmarsi per il confuso episodio dell’occupazione e incendio del municipio altegno da parte di padri famiglia che è terminato con sei morti, nel medesimo momento in cui il tassista ripeteva il suo mantra.
La sindaca Soledad Chapetón, che ha vinto le elezioni municipali con il 55 per cento dei voti in un bastione governativo, accusa gli ex consiglieri comunali del MAS per l’assalto e l’incendio del municipio. Il governo, da parte sua, afferma che si è trattato di un “autoattentato” della municipalità allineata con l’opposizione. I fatti di El Alto riscuotono una speciale rilevanza nella retta finale della campagna elettorale per il referendum di domenica 21, nel quale i boliviani devono decidere se si riforma la Costituzione per permettere una seconda rielezione di Evo Morales.
Il principale viale di La Paz, al centro della depressione, mezzo chilometro sotto El Alto, è da vari giorni interrotto da manifestanti. File di meticce con le loro sottane e i loro cappelli, sedute serenamente bloccano le strade, mentre i maschi sparano razzi. La maggioranza appartengono ad associazioni di pensionati, ma dietro di loro giungono i minatori, i lavoratori petroliferi e diversi settori che approfittano della congiuntura elettorale per strappare una richiesta addizionale al governo.
“Protestiamo per la seconda tredicesima”, spiega una donna quando le si domanda il motivo della protesta. La settimana prima del referendum è testimone della moltiplicazione di manifestazioni popolari, una confluenza spontanea dei più diversi settori che credono che sia il momento opportuno per chiedere.
Risultati incerti
“Lei è d’accordo con la riforma dell’articolo 168 della Costituzione Politica dello Stato affinché la presidente o il presidente e la vicepresidente o il vicepresidente dello stato possano essere rielette o rieletti per due volte di seguito?”. Questa è la domanda a cui questa domenica dovrebbero rispondere sei milioni di boliviani.
L’iniziativa è partita dalla presidenza e molti credono di vedere la mano del vicepresidente Álvaro García Linera, eminenza grigia del primo mandatario. Morales è giunto alla presidenza nel 2006 con il 54 per cento dei voti. È stato rieletto nel 2010 con un pesante 64 per cento e nel 2015 con il 61 per cento ha ottenuto un terzo mandato che concluderà nel 2020. Ora lotta per presentarsi nuovamente, fatto che potrebbe portarlo ad esercitare il potere fino al 2025, ossia 20 anni consecutivi.
La domanda che si fanno molti boliviani, è perché si promuove un referendum con tanto anticipo giacché le elezioni nazionali saranno effettuate tra quattro anni. La cosa certa è che il referendum ha diviso il paese in due metà. Con il Sì sono allineati il MAS e i movimenti sociali che appoggiano il governo, tra loro la Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia (CSUTCB), la più importante organizzazione sociale del paese. Ma anche alcune figure locali di rilievo, come gli ex calciatori Marco Etcheverry ed Erwin Sánchez.
Il No alla rielezione è molto più eterogeneo. Tra le sue fila spiccano l’ex presidente Carlos Mesa, il governatore di Santa Cruz, Rubén Costas, ambedue della destra, ma anche il governatore di La Paz, Félix Patzi, e l’ex ministra della Difesa Cecilia Chacón, che possono essere considerati di sinistra.
Le inchieste sono una lotteria. Quelle diffuse a febbraio, puntano su un pareggio intorno al 40 per cento per ciascuna opzione, toccando agli indecisi la decisione. Alla chiusura della campagna elettorale governativa, mercoledì 17, migliaia di persone hanno acclamato Morales in viale Costanera nella zona Sud della capitale.
“Noi abbiamo liberato e portiamo avanti, da parte dei movimenti sociali, uno strumento politico di liberazione e in dieci anni abbiamo cambiato l’immagine della Bolivia”, ha affermato Morales che ha messo in risalto che la sua proclamazione di una nuova elezione generale è stata il frutto della “richiesta dei movimenti sociali e del popolo organizzato”.
Nello stesso momento studenti dell’Università Pubblica di El Alto (UPEA) hanno protestato vicino a piazza Murillo, facendo allusione all’ultimo scandalo che lega Morales all’imprenditrice Gabriela Zapata Montaño, che avrebbe beneficiato della sua relazione privilegiata con il presidente. “Evo, Zapata, restituite il denaro”, gridavano in coro gli studenti che insieme alle organizzazioni di pensionati hanno paralizzato il centro della città.
Secondo la stampa dell’opposizione, le persone che partecipano a manifestazioni governative sono dei funzionari che assistono in modo obbligatorio. Appena è finito il discorso del presidente, “funzionari pubblici e membri di organizzazioni sociali si affannavano ad apporre il proprio nome e firma nelle liste di presenza della chiusura della campagna elettorale del Sì che il MAS ha organizzato nella città di La Paz” (Página Siete, 18 febbraio 2016).
Una delle mobilitazioni più frequentate è stata quella realizzata nella notte di mercoledì 17 nella centrale piazza San Francisco da parte dei sostenitori del No, alla quale hanno partecipato importanti organizzazioni sociali (come CONAMAQ) che prima erano a favore del governo e che nel 2011 hanno girato le spalle quando il corteo per la difesa di un territorio indigeno e di un parco naturale che sarebbe stato attraversato da una strada, fu repressa dalle autorità. “È stata la manifestazione più numerosa e rumorosa realizzata in un decennio a La Paz dall’opposizione boliviana” (Agencia Fides, 18 febbraio 2016).
Un colpo demolitore
Una settimana prima del referendum sono scoppiate due bombe che hanno danneggiato la credibilità del governo. Quella di minore potenza è relativa al vicepresidente, sul cui libretto militare figura come “laureato in Matematica” quando mai ha terminato i suoi studi. Anche nei suoi numerosi libri appare come laureato. Nel risvolto di “Sociologia dei movimenti sociali in Bolivia”, dice che è matematico e sociologo, lo stesso che altre pubblicazioni.
Sabato 13 si è presentato di fronte ai media e ha dichiarato, con la superbia che gli ha procurato numerose antipatie: “Álvaro García Linera ha studiato matematica in Messico, non ha terminato la sua laurea perché è venuto in Bolivia ad organizzare una guerriglia per lottare contro i neoliberisti, l’ho detto due anni fa, tempo addietro”, ha detto il vicepresidente.
L’agenzia Fides ha informato che una biografia che era pubblicata nella pagina web della Vicepresidenza, era stata ritirata. In quella si segnalava che García Linera “ha ottenuto la laurea e il master” nell’UNAM del Messico. Ora c’è un altro testo, che segnala solo che “ha studiato matematica” (Pagina Siete, 15 febbraio 2015).
Ma il petardo più grosso è scoppiato sotto il naso di Morales. Il giornalista Carlos Valverde ha denunciato che Morales ha fatto clientelismo per favorire l’imprenditrice Gabriela Zapata Montaño, che in Bolivia rappresentava un’impresa cinese. Il presidente ha riconosciuto di aver avuto una relazione con la giovane imprenditrice e che nel 2007 hanno avuto un figlio che è morto, anche se non ha dato dei dettagli, ma ha negato che la sua impresa fosse stata favorita dalla relazione sentimentale.
Secondo la denuncia, Morales ha conosciuto la Zapata nel 2005 quando lei aveva 19 anni e il presidente 45. Lei è una assidua nelle pagine sociali della città di Santa Cruz, lavora per l’impresa China CAMC Engineering, che mantiene milionari contratti con lo stato. L’accusa sostiene che il governo l’ha favorita nei contratti che superano i 500 milioni di dollari. È stato il primo colpo diretto al mento di Evo, che può aver danneggiato tanto la sua credibilità come i risultati del referendum di domenica.
Il governo ha contrattaccato con forza, segnalando che il giornalista è stato capo dello spionaggio boliviano tra il 1989 e il 1993, in pieno periodo neoliberista, e che attualmente ha strette relazioni con l’ambasciata degli Stati Uniti. Secondo l’argomento governativo, Washington sta cercando di bloccare l’avanzata cinese nella regione sudamericana, ciò spiegherebbe il fatto che i contratti con l’impresa che la Zapata rappresenta siano nell’occhio dello scandalo.
Ambedue le cose possono essere vere. Che il giornalista lavori in funzione degli interessi statunitensi e che l’impresa cinese sia stata favorita dalla speciale relazione tra il presidente e l’imprenditrice.
L’estrattivismo al centro
Lontano dal rumore mediatico, il dibattito più di fondo colloca al centro della questione il modello produttivo portato avanti dal MAS, centrato sullo sfruttamento e l’esportazione di idrocarburi, su imprese minerarie e monocolture di soia. Insomma, il medesimo modello che ha caratterizzato il paese lungo tutta la sua storia, dalla colonizzazione spagnola.
La messa in discussione si deve alla continuità del modello sotto i governi del MAS, che avevano promesso di andare più in là promuovendo un “salto industriale”, che non solo non si è prodotto ma si assiste all’aumento dell’estrattivismo. Ora il vicepresidente parla di un “estrattivismo temporaneo”, che permetterebbe l’accumulazione di risorse per investire nell’industrializzazione. Nonostante ciò, al di fuori di una ripresa dell’industria tessile in mano a piccoli e medi produttori, i cambiamenti non arrivano.
Il ricercatore Pablo Villegas del Centro di Documentazione e Informazione Bolivia (CEDIB), sostiene che la caduta dei prezzi delle commodities nel mondo stia provocando nel paese un’acuta crisi. “Questa crisi ha due aspetti”, ha detto a Brecha. “Da un lato abbiamo un crescente indebitamento estero e un importante aumento delle tasse, e dall’altro una incapacità istituzionale ad affrontare la crisi. In questo modo avremo un governo con risorse in un paese senza risorse e con una popolazione strangolata da alte tasse”.
Mesi fa il CEDIB, la cui sede è a Cochabamba, è stato uno delle ONG minacciate di espulsione dal governo, per le sue permanenti critiche alle forze di governo. I governi di Venezuela, Ecuador e Bolivia si sono caratterizzati per la loro non accettazione di critiche quando provengono dalla sinistra. Villegas non è ottimista riguardo all’immediato futuro, e sospetta che aggravandosi la crisi il governo possa optare per una via d’uscita repressiva contro i movimenti sociali e le inevitabili mobilitazioni di strada che fanno parte della cultura politica del popolo boliviano.
“Tutto il suo piano è di mantenersi al potere”, sostiene Villegas riguardo al MAS e ad Evo Morales. “L’alternativa è recuperare la democrazia”, giacché pensa che una caratteristica comune dei progressisti sia “la corruzione, come lo dimostrano i governi di Brasile, Cile e Bolivia”.
Il sociologo Luis Tapia, da parte sua, afferma che “l’eccedente delle esportazioni di commodities non sia stato utilizzato nella trasformazione produttiva ma nel lubrificare le reti clientelari per aumentare il controllo politico sulla società e facilitare l’ascesa di una nuova borghesia”.
Tapia è stato membro del gruppo di intellettuali che si sono chiamati Comuna, e ha lavorato per anni insieme all’attuale vicepresidente García Linera, dal quale mantiene una distanza tanto personale che intellettuale. Riflette su ciò che chiama come “presidenzialismo coloniale”, che consiste in “permanenti processi elettorali per legittimare decisioni prese fuori dagli ambiti istituzionali e anche fuori dal paese, usando processi plebiscitari come facciata per evitare cambiamenti di governo”.
Ma la critica più demolitrice la effettua la sociologa aymara Silvia Rivera Cusicanqui, un mito boliviano, tanto per gli intellettuali come per i movimenti. È autrice del più importante libro sulla storia sociale boliviana, “Oppressi ma non vinti”, che racconta e analizza la storia contadina aymara e quechua dal 1900. Rivera è sia intellettuale che attivista, ed è la pensatrice boliviana più riconosciuta dentro e fuori del paese.
In una lettera diffusa martedì 16, nella quale difende il voto contro la rielezione, accusa García Linera di aver ideato un’alleanza con i proprietari terrieri di Santa Cruz ai quali avrebbe offerto di “cambiare qualsiasi legge o decreto per favorirli”. Va più lontano sottolineando di “riconoscere in lui uno dei più arrivisti che abbiano riempito il nostro percorso di infamie, indegnità e sconfitte”. Convoca le “energie della nostra coscienza ribelle e la luce degli insegnamenti indigeni e plebei della nostra storia”, per evitare che vinca la rielezione.
Attira l’attenzione la mutua sfiducia, e perfino l’odio, che si elargiscono mutuamente i membri del governo e coloro che hanno fatto parte del medesimo progetto fino a quando hanno cominciato a percorrere cammini opposti. In effetti, fino al 2005 gli uni e gli altri si sono battuti insieme nelle guerre dell’acqua (2000) e del gas (2003 e 2005), in decine di cortei e azioni collettive in lungo e largo nel paese. Per i governativi, i critici “fanno il gioco dell’imperialismo”. Per gli oppositori di sinistra, i nuovi governanti “hanno tradito l’agenda di ottobre”, una lista di richieste che è stata sottoscritta con il sangue nelle giornate dell’ottobre 2003, dove morirono 67 manifestanti e 500 furono gravemente feriti.
Un dialogo impossibile che mostra i limiti dei processi di cambiamento e delle stesse alternative da sinistra.
18 febbraio 2016
Brecha
tratto da Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Raùl Zibechi, “Bolivia, el impronunciable ocaso del patriarca” pubblicato il 19-02-2016 in Desinformémonos, su [http://desinformemonos.org.mx/bolivia-el-impronunciable-ocaso-del-patriarca/] ultimo accesso 21-02-2016. |