Perché sono finita in questa schifosa vita? Lavoratrici sessuali della Brigada Callejera condividono le loro testimonianze con Raúl Zibechi


Fran Richart

“Quale è il suo scopo in questa conversazione?”, chiede con enfasi Betty a Zibechi che giunto da poco parla, taccuino in mano, della sua esperienza sulla lotta delle lavoratrici sessuali in Uruguay. “Far volare la vostra parola in altri luoghi”, risponde.

Tra baratti e commerci ambulanti che occupano via Corregidora, nel centrale quartiere messicano di La Merced, c’è un piccolo atrio, inosservato, attraverso le cui scale si giunge al locale della Brigata di Strada per la Protezione della Donna “Elisa Martínez”. Oggi c’è un avvenimento e una fila di donne e transessuali sporge la testa verso un piccolo appartamento dove si tiene una conversazione. L’invitato è Raúl Zibechi, attivista e pensatore uruguayano, che è venuto a conoscere in prima persona la lotta e le storie dei e delle lavoratrici sessuali autorganizzate nella brigata. Il locale è piccolo, ed oggi è pieno perché tutti vogliono parlare. Manifesti pubblicitari sulla salute si mescolano con cartelli zapatisti e con l’istantanea incorniciata del sub Comandante Marcos, mentre guarda le bellezze che nasconde una gonna.

“Quale è il suo scopo in questa conversazione?”, chiede con enfasi Betty a Zibechi che giunto da poco parla, taccuino in mano, della sua esperienza sulla lotta delle lavoratrici sessuali in Uruguay. “Far volare la vostra parola in altri luoghi”, risponde. Il giornalista e intellettuale, la cui militanza politica risale agli inizi dei settanta contro la dittatura di Bordaberry, spiega minuziosamente che il suo obiettivo quando conosce un movimento è parlargli dell’altro. Una teoria del contagio che disegna dei sorrisi tra le presenti in sala. Zibechi termina: “È il mio modo di contraccambiare. Mostrare agli altri e alle altre che questo esiste. Vi voglio dire che per me è un onore stare con voi”.

La storia dell’angolo

La brigata di strada nasce nel Distretto Federale nel 1995, ed è composta da lavoratrici e lavoratori sessuali, che si sono specializzati in diritti umani e nella prevenzione delle malattie trasmesse sessualmente. L’organizzazione è apartitica, senza scopo di lucro, laica e assembleare. Tra i suoi scopi c’è la creazione di una clinica per le compagne e i compagni che lavorano in strada, e il riconoscimento, per la prima volta nella storia e dopo due anni di intensa lotta, dell’accreditamento delle lavoratrici sessuali della pubblica via come lavoratrici salariate. Questo significa, che il servizio sesso è riconosciuto come un qualsiasi lavoro lecito, ed è un passo affinché i poliziotti smettano di perseguitare o derubare coloro che si dedicano a questo in strada.

“Molte giovani non hanno visto il lavoro e la lotta instancabile che tutto questo ha comportato”, dice una compagna transessuale, che si scaglia simpaticamente contro “le nuove”, che “con una mano sul fianco si mettono a lavorare senza problemi”. La brigata di strada Elisa Martínez non è solo un fronte di lotta o di resistenza, ma anche memoria collettiva di una storia di repressione, che come molte di loro dicono, “ha aperto la strada alle altre”. La donna trans ricorda quando poco meno di 20 anni fa, le portavano via dall’angolo nelle celle di sicurezza del Torito, dove le rapavano e le innaffiavano d’acqua. Le quotidiane persecuzioni e arresti fino a tre o quattro volte al giorno, ha addestrato duramente tutta una generazione di transessuali, che come lei dice, li ha fatti unire un po’ di più e gli ha dato la possibilità di lasciarsi dietro questo rifugio.

Zibechi ascolta attentamente, mentre scrive nel suo taccuino i dettagli che più lo sorprendono. È il turno di Mérida. Una delle donne veterane che incomincia col ricordare come a La Merced c’erano più di 150 hotel dove potevano lavorare e che ora sono rimpiazzati da spazi commerciali. Ora, l’ex lavoratrice sessuale, recrimina la graduale espulsione delle sue compagne nel centro storico della capitale e descrive il nervosismo istituzionale da quando hanno ottenuto l’accreditamento come salariate. “Da quando lo abbiamo ottenuto sono incolleriti. Cercano di fregarci ma siamo organizzate”, afferma.

Mérida, come molte altre compagne, è riuscita attraverso la Brigata a studiare informatica, così come a conseguire la primaria e la secondaria. Ora studia infermeria e si profonde in elogi per Elvira, fondatrice dell’organizzazione e presente all’incontro, che ringrazia per aver appreso i codici e gli argomenti legali, affinché la polizia non si approfitti di loro.

“Io mi sentivo ripugnante, sporca, perché sono finita in questa schifosa vita? Non volevo essere una puttana, mi discriminavano, perché qui nel DF, ci accusano di causare crimini, droghe e omicidi. Elvira mi ha fatto sentire che come donna valgo molto. Il lavoro sessuale è così degno come qualsiasi altro, non lavoravo perché mi piacesse la verga, lavoravo per necessità …”, dice Mérida.

E questo è un dettaglio importante. Le aderenti alla brigata di strada sostengono che lavorano per necessità ma per volontà propria. Avvertono che se vedono una compagna costretta o soggiogata, ci si gettano sopra per appoggiare la sua situazione. L’obiettivo di questa associazione civile non è cambiare l’attività o il percorso lavorativo delle lavoratrici e dei lavoratori sessuali, Ma che questi lo facciano con la maggior sicurezza, garanzia e dignità possibili. Ramona, un’altra delle presenti entra in azione:

“Io sono una lavoratrice, non sono una prostituta. Una prosti non guadagna, le comprano un vestito e glielo regalano, per accostarsi con loro. Noi scegliamo il cliente. Se vuole darci lavoro, deve proteggersi. E se lui non si protegge, io con lui non lavoro. Per questo sono una lavoratrice sessuale”. Ramona riceve sonori applausi dalle sue compagne, mentre pochi secondi prima assentivano con la testa. È accompagnata da suo figlio di 13 anni, che timidamente interviene dopo per elogiare con discrezione il lavoro della brigata e dire grazie alla sua mamma.

Proteggiti, proteggici

Ramona è un’altra delle esperimentate che ha visto l’evoluzione del suo mestiere negli ultimi 40 anni. “Ci hanno sempre chiamato focolai di infezione”, dice sorprendendo Zibechi. Ricorda con chiarezza e così gli racconta come nella brigata cominciarono i seminari di promozione sanitaria. Come arrestare una infezione, come curarsi, che fare quando qualcuno era sieropositivo e soprattutto la trattativa del preservativo. “Quella che non lo usa, noi stiamo su di lei”, sentenzia. Per lei, il prendere coscienza è stato il primo passo che l’ha portata, prima ad aver cura della propria salute, e dopo a trasformarsi in consulente sanitaria per le altre coetanee che condividevano l’angolo con lei.

“Quando ci dicono questo dei focolai di infezione, gli dico: scusa, siamo consulenti sanitarie. Ti posso insegnare ad usare un preservativo, qualcosa che non fai con la tua segretaria o con tua moglie”. Risate nella sala ricolma. Bisogna aggiungere alla dichiarazione di Ramona, che le donne sposate sono il secondo gruppo della popolazione più colpita dall’HIV a livello mondiale, dopo gli uomini gay.

Betty alza la mano per domandare o intervenire. Anche lei è membro della brigata e grazie ai seminari di giornalismo ha incominciato a scrivere la storia di vita di alcune delle sue amiche e compagne. “Nuotiamo nell’ignoranza e grazie che questo sta già scomparendo”. Con una lunga coda di cavallo bruna e gli occhiali appoggiati a metà del setto nasale come una bibliotecaria, Betty si dilunga su come la Brigata ha cambiato la sua vita e come attraverso gli anni l’educazione, la promozione e l’orientamento siano stati fondamentali.

Fatto che conferma Lupe, che da 27 anni è nella lotta con Elvira, e che racconta con abbondanza di dettagli la discriminazione che subivano quando giungevano nel Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo dell’HIV/AIDS (Conasida). Su tutto questo, Mérida rispunta e spiega: “Ci separavano secondo lavoratrici sessuali e pazienti. Ci colpivano varie volte sul braccio dicendo che non si vedeva la vena. Nel caso di compagne che avevano l’HIV, nemmeno le attendevano”.

Tutte non abbiamo un prezzo

Qualcosa di ciò che le veterane avvisano sull’ostilità che possono subire le nuove, è la lotta per il centro storico di Città del Messico. “Arriva una pulita. Circondano le lavoratrici sessuali ancor di più affinché vadano in luoghi clandestini, come prima”, spiega Rosa Madrid, un’altra delle fondatrici della Brigata, che incita le giovani presenti ad “afferrare la spada”.

Rosa si mostra pessimista ma con spirito combattivo, informando che nonostante si sia raggiunta la meta della tessera di lavoratrice salariata, è difficile da darne corso e ottenerle, giacché la Segreteria del Lavoro non è per il lavoro. “È una conquista che bisogna continuare a difendere”. È per questo che l’attivista cinquantenne commenta due pericoli da tener in conto: che la tessera sta togliendo l’affare ai prosseneti e per questo la sua limitazione, e anche la cooptazione di organizzazioni internazionali, una piaga che manda a fondo i progetti autogestiti delle lavoratrici sessuali. Commenta sulla Banca Mondiale, sulla sua ossessione di cercare di cambiare il percorso lavorativo delle compagne con progetti che successivamente si esauriscono e non hanno futuro. È per questo che Rosa alza il pugno e pronuncia: “Fino alla morte, noi non ci vendiamo”.

Intendere il carattere e l’insofferenza di questa organizzazione unica in Messico, riempie a volte gli occhi di Zibechi di quel rosso lacrimoso che si mescola con i suoi profondi occhi azzurri. Porta un berretto e lo può dissimulare. È il turno di Elvira. Una delle fondatrici.

“Ci hanno picchiate tutte. Quando sono giunta qui la mia vita è cambiata. Vivevo in una bolla che non era questa. Ho visto tutte queste violazioni dei diritti umani, perciò siamo andate ad affrontare la polizia e le autorità”.

Elvira ha un metro e quarantacinque di pura solidarietà. I suoi occhi si commuovono quando sente una compagna parlare di lei o di come la brigata ha cambiato la loro sorte nella strada. Sociologa di formazione, come dice, non bisogna essere indigena o ragazza di strada per lottare contro le ingiustizie.

Alla sua storia di lotta le si potrebbe dedicare bene un corrido (ballata messicana, ndt). Alcuni anni fa, fu protagonista insieme ad altre di una denuncia pubblica contro vari poliziotti che intimidivano e abusavano delle lavoratrici sessuali. La sua ricompensa, una bastonata che la lasciò a letto per 15 giorni. “Dopo la convalescenza, tutte abbiamo girato intorno a La Merced e gli abbiamo detto ‘qui siamo cornuto, siamo vive per continuare a rompere le scatole”.

Nonostante ciò, le realtà più crude che ha incontrato è stato quando, con altre compagne della brigata, è andata a conoscere le comunità negli stati. Quando parla delle sue esperienze di vita, non si ascolta nemmeno un respiro:

“Ci hanno ucciso molte compagne e incarcerate altre. A Tapachula, dove il 75% sono honduregne, ci sono 150 compagne accusate di tratta, perché i veri trafficanti non li rinchiudono”.

“Il Michoacán è fottuto perché hanno fatto una loro legge sulla tratta per fottere il più fottuto. Abbiamo incontrato, e non abbiamo potuto fare nulla, un rimorchio con semplici bambine custodite da militari”.

“Il narco è il loro braccio per depredarci di tutto”.

Gli occhi di Elvira sembrano raccontare più delle sue parole. A tutto questo, ci ricorda anche il personale che abbiamo assistito, che la brigata sta terminando di tirar fuori il libro ‘Verso una resa dei conti’, dove approfondiscono sulla tratta delle persone e le loro testimonianze.

Alla fine, Elvira ricorda il passaggio nel 2005 della Otra Campaña, promossa dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. “Ci sentivamo perdute, già dicevamo che non ce n’era per nessuno, fino a quando arriva la Sesta ed è stata come una visione. Non siamo sole”. Non sappiamo se è l’impronta zapatista o plasmata nella strada, ma Elvira termina il suo intervento con un concetto nitido:

“Siamo brigate perché non stiamo ad una scrivania”.

L’ultima parola rimane all’invitato Raúl Zibechi, che toccato dalle storie delle donne, dice: “Se Zapata o Villa fossero vivi, sarebbero orgogliosi di voi”.

Al che Elvira puntualizza. “Se Zapata o Villa fosse vivo, ci accoglierebbe”.

18 agosto 2015

Desinformémonos

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Fran Richart, “¿Por qué terminé en esta puta vida? Trabajadoras sexuales de Brigada Callejera comparten sus testimonios con Raúl Zibechipubblicato il 18-08-2015 in Desinformémonos, su [http://desinformemonos.org.mx/2015/08/por-que-termine-en-esta-puta-vida-trabajadoras-sexuales-de-brigada-callejera-comparten-sus-testimonios-con-raul-zibechi/] ultimo accesso 26-08-2015.

 

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