Il potere o la strada: la crisi del PT brasiliano


Raúl Zibechi

Raúl Zibechi analizza come, a dodici anni dall’aver raggiunto il potere, il Partito dei Lavoratori attraversi una crisi che può allontanarlo dal governo e delegittimarlo di fronte alla sua stessa base. Corruzione e governabilità: chi ha corrotto chi?

“Il progetto del PT oggi, come quello di tutti i partiti, è mantenersi al poter e punto”, afferma il sociologo Francisco de Oliveira (Revista IHU, 1 aprile 2013). Lo dice chi è stato militante nella clandestinità durante la dittatura e fondatore del partito; chi sotto la presidenza di Luiz Inacio Lula da Silva lo ha abbandonato da sinistra per formare il Partito del Socialismo e la Libertà (PSOL), un intellettuale con una lunga traiettoria politica che, fin dai primi passi del PT al potere, si è sforzato di comprendere l’inedita esperienza di una forza nata dall’esperienza quotidiana dei lavoratori per salire i diversi gradini dell’apparato statale fino a coronare nel 2003 la presidenza. E diventare, in pochi mesi, partito dell’ordine e degli imprenditori.

“Il potere intriga”, scrisse Frei Betto nel 2006, dopo aver abbandonato il suo incarico nel governo di Lula come consigliere speciale del presidente e Coordinatore della Mobilitazione Sociale del Programma Fame Zero, “con diritto a un gabinetto nel Palazzo di Planalto e ad una infrastruttura per nulla disprezzabile: segretarie, telefonino, viaggi aerei, casa, macchina con autista, tutto pagato dal contribuente” (Alainet, 14 marzo 2006). Le sue disincantate riflessioni nel libro La Mosca Azzurra sembrano premonitorie: “Un militante di sinistra può perdere tutto, la libertà, il lavoro, la vita. Meno la morale”*.

Ambedue referenti etici e intellettuali della sinistra brasiliana hanno coinciso nel prendere le distanze dal PT al governo. De Olivera sbatté la porta pochi mesi dopo che Lula si trasformò nel presidente, assicurando che era più privatizzatore del neoliberista Fernando Henrique Cardoso, “privatizzatore in una scala che il Brasile non aveva mai conosciuto”. Betto se ne andò in silenzio, ma il suo libro fu un colpo tremendo al prestigio di Lula e del partito. Ambedue le denunce partivano dal cuore stesso del potere. Sapevano di ciò che parlavano e, di fatto, mai sono stati smentiti.

Un decennio dopo quelle diserzioni, le cose non hanno fatto che peggiorare per il governo e il partito. Le grandi mobilitazioni dello scorso 15 marzo, da sette a dieci volte più partecipate di quelle che due giorni prima, il 13 marzo, ha convocato l’arco governativo sono appena la parte più visibile di un doppio deterioramento: il PT e il governo hanno perso tanto l’iniziativa politica come la legittimità lungamente costruita e, ancor peggio, hanno perso la strada, lì dove è nato il partito che ha portato aria nuova nella politica brasiliana.

È ancora presto per sapere se potrà riprendersi. La cosa certa è che i suoi quadri e intellettuali non riescono a riconoscere ciò che sta succedendo. Lanciano pallonate il più lontano possibile dalla propria area: accusano i media, la destra e l’imperialismo di tutto il male che gli succede, ma non dicono nulla delle decisioni politiche della presidente Dilma Rousseff che ha nominato un Chicago boy all’Economia e una decisa rappresentante dell’agro-negozio all’Agricoltura, per fare appena due esempi.

L’attuale crisi ha dei precedenti che devono essere ricercati nel modo con cui dal 2003  il PT realizzò la governabilità, per mano di Lula, con il visto della centrale sindacale CUT, della direzione del partito, includendo le sue diverse correnti “critiche”, e la quasi totalità dei movimenti sociali. Le voci dissidenti, in questi dodici anni, sono state deboli e si sono trincerate con il governo con l’argomento di “non fare il gioco della destra”, senza percepire che la destra sta, precisamente, nel governo.

Mensalao e dopo

Appena giunti al governo, i quadri di fiducia del PT concepirono una politica di alleanze per ottenere la maggioranza parlamentare necessaria a governare e una strategia di espansione dell’economia legata alle grandi imprese brasiliane. Il collegamento con più di una decina di partiti richiese pazienza e abilità politica, ma si seppe subito che, per assicurarsi che i progetti dell’Esecutivo fossero approvati nel Congresso, era stato organizzato un piano di pagamenti di mensilità (mensalão) distraendo risorse di imprese statali.

Lo scandalo costò l’incarico a José Dirceu, provato dirigente petista e uomo di massima fiducia di Lula, oltre che a vari dirigenti del PT e di partiti alleati che furono condannati dalla giustizia. Ma l’episodio di corruzione, che coinvolse decine di parlamentari, non ebbe grandi costi politici, giacché appena un pugno di militanti abbandonò la sigla e la buona situazione economica evitò un maggiore declino dei governativi di fronte al proprio elettorato.

Nonostante ciò, fu chiaro, per chi volle vedere, che l’etica era stata bandita nell’interesse di un progetto di potere. Qualcosa di simile successe con l’alleanza tessuta dal lulismo con gli impresari. Le informazioni sulle milionarie donazioni alle campagne elettorali dei partiti, incluso il PT, non deteriorarono l’immagine del governo né del partito, che portava a giustificazione che era il modo con cui si finanziavano tutti.

Si tratta di un vincolo strutturale che va al midollo della governabilità brasiliana che certamente non è stato inventato dal PT, ma che un partito che si era proclamato dei lavoratori e dell’etica non ha fatto il minimo tentativo di smantellare. Quando è scoppiato il nuovo scandalo, conosciuto come Petrolão perché l’epicentro è l’impresa statale Petrobras, coinvolgendo dirigenti di vari partiti che sostengono il governo, alte cariche dell’impresa e dirigenti delle più conosciute imprese costruttrici, non è stato una sorpresa. Salvo per l’ammontare sottratto: l’enormità di quasi quattro miliardi di dollari in dieci anni.

Due grandi problemi riguardano il governo del PT. Uno, che non può imputare la corruzione a nessun altro se non ai suoi stessi quadri, giacché la direzione dell’impresa statale era nelle mani di Graças Foster, una tecnocrate di fiducia della Rousseff. Ambedue dovevano aver conoscenza che si stava stornando del denaro, giacché l’ammontare della cifra non permette un’altra conclusione. Se non sapevano, la mancanza di guida sarebbe ancor più grave.

Il secondo problema che affronta, è che le imprese coinvolte giocano un ruolo rilevante nello schema di governabilità petista e nel suo ingranaggio di politica estera. Le imprese costruttrici sono grandi multinazionali brasiliane definite da Lula come “campioni nazionali”, che contano su generosi crediti della BNDES per oliare la loro espansione nel mondo. Questa “alleanza strutturale” con l’agro-negozio, le imprese minerarie e i settori strategici della classe imprenditoriale è una delle chiavi della governabilità del PT.

Per questo Bruno Cava, ricercatore dell’Università Nómade, sostiene che lo scandalo della corruzione non è stato causato da sottrazioni di denaro pubblico fatte da persone corrotte. Ossia non è stato un incidente né un fatto preciso che si può risolvere castigando quelli implicati, ma “la struttura della stessa governabilità, di modo che è difficile dire chi è il corrotto e chi il corruttore: se le imprese di costruzione hanno corrotto il partito e il governo, o se il partito e il governo hanno corrotto le imprese di costruzione” (Revista IHU, 23 marzo 2015).

Conclude evidenziando l’esistenza di reti di potere che abbracciano tanto il polo statale come quello privato. Il PT , da quando è arrivato al governo, ha promosso una riorganizzazione del capitalismo brasiliano basata su incentivi statali ad un pugno di imprese in condizione di competere nel mondo. Le imprese costruttrici facevano parte di questo nucleo.

Impresari amici
Dal 2011 fino a metà 2013, l’ex presidente Lula ha visitato 30 paesi, dei quali 20 sono in Africa e in America Latina. Le imprese di costruzione hanno pagato tredici di questi viaggi, la quasi totalità da Odebrecht, OAS e Camargo Correa (Folha de São Paulo, 22 marzo 2013). Un telegramma inviato dall’ambasciata del Brasile in Mozambico, dopo una delle visite di Lula, evidenzia il ruolo dell’ex presidente come vero ambasciatore delle multinazionali. “Associando il suo prestigio alle imprese che operano qui, l’ex presidente Lula ha sviluppato, agli occhi dei mozambicani, il proprio impegno con i risultati dell’attività imprenditoriale brasiliana”, ha scritto l’ambasciatrice Lígia Scherer.

La condotta di Lula non è illegale. Al contrario, il suo comportamento è in sintonia con quello che sogliono fare i presidenti e gli ex presidenti di tutto il mondo: lavorare per favorire le grandi imprese dei propri paesi, anche se ha poco a che vedere con un atteggiamento di sinistra, solidale con i lavoratori.

La quasi totalità delle opere di infrastruttura contemplate nel progetto Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana (IIRSA), in totale più di 500 opere per 100 miliardi di dollari, stanno venendo costruite dalle multinazionali brasiliane. Lo stesso succede con le dighe idroelettriche. La statale BNDES (Banca Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale) è la principale finanziatrice di queste opere, ma lo fa a condizione che il paese che riceve il prestito contratti imprese brasiliane.

Il ruolo di Lula è quello di promuovere le “sue” imprese, contribuendo a spianare le difficoltà grazie al suo enorme prestigio e alla cassa milionaria della BNDES. Non illegale, ma politicamente impresentabile per chi abbia pretese di considerarsi di sinistra.

Quando ci sono stati conflitti tra le imprese e i governi della regione, i dirigenti del PT hanno scelto le imprese che, tra le altre cose, finanziano le campagne elettorali, in modo molto particolare quelle di costruzione. Odebrecht è stata espulsa nel 2008 dal governo di Rafael Correa per difetti della diga San Francisco che dovette essere bloccata appena un anno dopo la sua inaugurazione. Il governo di Lula si impegnò a fondo in difesa della Odebrecht, una delle principali donatrici alle campagne del PT.

Si tratta di mega imprese (Odebrecht, Camargo Correa, Andrade Gutierrez, Gerdau, Votorantim, OAS) che sono nate al riparo dello stato nel periodo dello sviluppismo di Getúlio Vargas (1951-1954) e sono cresciute grazie alle opere pubbliche della dittatura (1964-1985). Oggi sono i principali sostegni imprenditoriali dei governi petisti, in Brasile costruiscono le principali opere di infrastruttura, dalle dighe come Belo Monte fino ad autostrade, ferrovie e aeroporti, ma soprattutto i contestati stadi del Mondiale 2014 e dei Giochi Olimpici di Rio del 2016.

Per farsi un’idea del potere di questo gruppo di imprese, solo una di queste, l’Odebrecht, ha 160.000 lavoratori (solo in Angola impiega 40.000 persone) e fattura 55 miliardi di dollari, cifra simile al PIL dell’Uruguay. È presente in 17 paesi, soprattutto in America Latina e Africa, e il 52% delle sue entrate provengono dall’estero, di qui la necessità che hanno di un aiuto “diplomatico”.

Salvo il potere tutto è illusione
Mentre la socialdemocrazia europea ha legato il proprio destino allo Stato del Benessere, con nodi così potenti che è affondata con quello, i progressisti latinoamericani che sono nati in piena fase neoliberista  hanno intrecciato i propri destini con le elite imprenditoriali locali. A differenza di quelli, non hanno mai avuto l’intenzione di ergersi come conciliatori degli interessi di classe (che implica pieni diritti per i lavoratori) ma hanno messo in piedi una varietà di politiche sociali che in nessun caso rappresentano un ampliamento dei diritti, ma trasferimenti compensatori che si riassumono nell’integrazione di quelli in basso attraverso il consumo.

Una simile politica ha potuto accontentare tutte le parti solo in periodi di vacche grasse, ossia finché duravano gli alti prezzi internazionali delle commodities. In Brasile la volontà di promuovere le monocolture di soia, le grandi opere di infrastruttura, con alcuni eccessi come la diga di Belo Monte che nemmeno la dittatura poté realizzare per la tenace opposizione sociale, e l’espansione dell’allevamento per l’esportazione, hanno creato forti impatti ambientali di cui i governi di Lula e Dilma non hanno mai tenuto conto. I politici brasiliani, di tutti i colori, non si sono nemmeno agitati questa estate quando la mega città di San Paolo è stata sul punto di rimanere senza acqua potabile per la persistente, e prevedibile, siccità.

Ma l’incantesimo del lulismo è finito. Nel peggior modo. Nelle strade milioni di giovani hanno manifestato la propria indignazione per la continuazione della disuguaglianza, nel paese più diseguale del mondo. O povo acordou (il popolo si è svegliato), è stata una delle parole d’ordine più gridata nelle 353 città dove nel giugno del 2013 ci sono state manifestazioni. Letteralmente, si è svegliato da un sonno di dieci anni cullato dalle armonie del consumismo che ha fatto dimenticare le necessarie riforme strutturali per superare la disuguaglianza.

Con quello il sistema politico ha incominciato a mostrare le proprie crepe, (mal) dissimulate dall’euforia dell’auto nuova, della moto e della tv al plasma. Se essere di sinistra è “lottare per l’uguaglianza sociale”, come ricorda De Oliveira, il PT è rimasto così malconcio come i partiti della destra, in particolare la socialdemocrazia di Cardoso, suo presunto arci nemico. Il modello del “presidenzialismo di coalizione” attuato da Lula e Dilma, è svanito nelle strade.

“Il tragico è che quando una cosa termina non finisce immediatamente e può continuare come uno zombie, come un morto vivente, e il paese rimanere paralizzato per molto tempo”, dichiara il filosofo Vladimir Safatle, che afferma che la fine del modello costruito nella post dittatura “porta con sé gli attori politici, gli intellettuali e i formatori di opinione” (bol.com.br, 15 marzo 2015). La prima cosa è accettare ciò che succede, la fine di qualcosa. Senza fare questo passo, non si trovano soluzioni.

Ma il PT e i suoi intellettuali non hanno mai compreso quanto successo nel giugno del 2013. Fino ad ora hanno risolto i propri problemi ricorrendo al marketing e alle imprese di propaganda. Invece di cercare di comprendere le grida della strada, e accompagnarle come indica l’etica di sinistra, si sono ripiegati in un sistema politico delegittimato, sono diventati ancor più conservatori (tanto i quadri come i suoi intellettuali), hanno mostrato tutta l’arroganza di coloro che si credono investiti da un destino superiore.

Ancor peggio: hanno travolto una parte significativa dei movimenti verso un discorso vuoto “contro l’avanzata della destra”. La sinistra è nulla senza i movimenti che, per operare come tali, hanno bisogno di “liberarsi dalla dipendenza finanziaria, politica e simbolica riguardo il governo e il PT”, come afferma Cava. La crisi del PT lascia un vuoto che, per ora, lo sta occupando la destra. Ma la gente comune, quella che tre decenni fa ha creato la CUT, il MST e lo stesso PT, può reagire e prendere l’iniziativa. Sarebbe una fenomenale destituzione, nella quale non cadrebbero solo le destre tradizionali ma anche i progressisti.

30/03/2015

Lavaca

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl Zibechi, “El poder o la calle: la crisis del PT brasileño” pubblicato il 30-03-2015 in Lavaca, su [http://www.lavaca.org/notas/el-poder-o-la-calle-la-crisis-del-pt-brasileno/] ultimo accesso 24-04-2015.

 

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