Iguala, la città dell’inferno


Luis Hernández Navarro

Nei dintorni di Iguala, i sicari che avevano privato della sua libertà e tenevano in loro potere l’ingegnere Arturo Hernández Cardona e altri tre suoi compagni, gli dettero una nuova raffica di bastonate, frustate e colpi con il filo dei machete. Era circa la mezzanotte del 31 maggio 2013 e minacciava di piovere.

Lì giunse il sindaco del municipio, José Luis Abarca, in compagnia del suo capo della polizia, Felipe Flores Velázquez. Non andava a salvare l’ingegnere ma a giustiziarlo. Vestiva dei pantaloni neri attillati, maglione scuro e aderente, e berretto. Collerico, ordinò agli sgherri di tornare a torturare Hernández Cardona.

Fuori di sé, il presidente municipale sentenziò: Perché stai rompendo tanto le scatole con il fertilizzante? E ti piaceva pitturare il mio municipio! Ora io mi toglierò lo sfizio di ucciderti!

Il capo della polizia municipale sollevò dal suolo Hernández Cardona e lo portò al bordo di una fossa scavata recentemente, vicino ad alcuni alberi. José Luis Abarca gli mise la canna di un fucile sulla gota del lato sinistro, e tirò il grilletto. L’ingegnere crollò. Uno dei pistoleri lo trascinò e lo gettò nella tomba.

Felipe Flores consigliò Abarca: Dagli un altro colpo affinché vada a quel paese, perché va a piovere. Obbediente, il sindaco gli sparò al petto. Senza ricoprirlo, il corpo rimase steso nella fossa. Molto presto caddero le prime gocce dell’acquazzone che inondò la fossa.

Più tardi, quando cercò di fuggire, gli sgherri del Cartello dei Guerrieri Uniti assassinarono Rafael Balderas Román e lo gettarono nella stessa fossa. Non per molto tempo. Dopo aver ricevuto una telefonata, i pistoleri dissotterrarono i corpi, li misero in un furgone e li portarono a Mezcala. E, per non lasciare testimoni, lì ultimarono l’altro dei loro prigionieri: Ángel Román Ramírez.

In mezzo alla confusione, uno dei sequestrati, Nicolás Mendoza Villa, uno degli autisti dell’ingegnere, riuscì a scappare. Con coraggio, denunciò gli assassinii davanti al pubblico notaio numero 47 del Distretto Federale, con Miguel Ángel Cuevas Aparicio, agente del Pubblico Ministero del tribunale. La Procura Generale della Repubblica (PGR) ignorò l’accusa.

Arrestato lo scorso 16 ottobre, Sidronio Casarrubias Salgado, conosciuto come El Chino, uno dei capi dei Guerrieri Uniti, di 44 anni e originario di Teloapan, ha confessato la propria responsabilità in questi omicidi come parte dei servizi prestati a José Luis Abarca.

“Un altro dei casi che abbiamo risolto al presidente municipale –ha detto alle autorità– è quello di un dirigente che gli stava dando molto fastidio, membro di un’associazione. Questi gli sollecitava un posto da consigliere e un camion di fertilizzanti. Il presidente glielo avrebbe consegnato, ma siccome il dirigente era diventato molto ‘esigente’, il presidente decise che era meglio ucciderlo”.

L’ingegnere José Luis Abarca era un dirigente del Fronte di Unità Popolare (FUP) di Iguala. Nel 1988 partecipò al Fronte Democratico Nazionale e alla fondazione del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD). Lottava per migliori condizioni di vita per i contadini e gestiva progetti produttivi. Nelle elezioni del 2012 appoggiò la candidatura di José Luis Abarca, che faceva parte del gruppo Nuova Sinistra, alla presidenza municipale di Iguala. In cambio, questi offrì di consegnargli del fertilizzante per le comunità di cui era consulente e il posto di consigliere per lo sviluppo a sua moglie.

Già al potere, il sindaco non mantenne nessuna delle sue promesse. E se ne approfittò alla grande. Nominò i suoi familiari e amici, e quelli di sua moglie, María de los Ángeles Pineda, conosciuta come Lady Iguala. Il narcotraffico fiorì nel municipio insieme all’industria dell’estorsione e del sequestro. Stabilì strette relazioni con i comandanti del 27° battaglione di fanteria. E, messo fino al collo nell’uso delle risorse pubbliche per fini personali, ordinò di giustiziare Justino Carbajal Salgado, responsabile amministrativo del municipio, perché si rifiutava di firmargli gli assegni senza conoscere le ragioni per le quali sarebbe stato usato il denaro sollecitato.

Il malessere contro l’amministrazione di Abarca e Pineda si diffuse rapidamente. Il 2 aprile 2013, durante una riunione per concordare la realizzazione di opere pubbliche, Hernández Cardona lamentò al sindaco il suo nepotismo, l’assegnazione settaria delle opere, la lentezza nelle indagini sul crimine di Justino Carbajal, così come la sua responsabilità nell’omicidio. Indignata, Lady Iguala cercò di colpire l’ingegnere e lo avvertì: Il delinquente sei tu, figlio di puttana. Non sai con chi ti metti. Morirai, morirai.

Per protestare a causa della situazione imperante, il 21 maggio, più di 500 membri del FUP accompagnati dai normalisti di Ayotzinapa, si mobilitarono ad Iguala. Il presidente municipale si rifiutò di riceverli. La massa occupò il palazzo e dipinse le pareti. Abarca montò in collera.

Una settimana dopo, negli uffici del municipio, il sindaco volle intimidire Hernández Cardona. “Ne ho già le scatole piene, vigliacco! –gli gridò–; ho gente che fa i miei lavori per me”. Uno dei suoi pistoleri consigliò il suo capo: mandalo a quel paese. In ogni modo verrà ucciso. Il giorno dopo, le minacce divennero realtà.

Il 3 giugno, centinaia di simpatizzanti del FUP e studenti di Ayotzinapa fecero un corteo ad Iguala per condannare i crimini. Eccitati, presero a sassate il comune. Uno dei sequestrati riuscì a scappare dai suoi sequestratori, Héctor Arroyo Delgado, e chiamò al telefono la manifestazione per raccontare a microfono aperto, per quattro minuti e 26 secondi, quanto successo.

La denuncia fu presentata anche nel Congresso dello stato, ma il deputato Bernardo Ortega, del PRD, non permise che passasse. La direzione nazionale del sole azteco finse la demenza.

Nicolás Mendoza Villa, che fu presente agli assassinii, segnalò i responsabili, portò il caso di fronte alla CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) insieme al vescovo Raúl Vera e a Sofía Mendoza, vedova del dirigente assassinato, e riuscì a sopravvivere per raccontarlo, afferma: Mai ritornerei ad Iguala, è l’inferno.

Le autorità civili, di polizia e militari del paese sapevano di questo inferno, nel quale, quasi 15 mesi dopo, sono stati assassinati e fatti scomparire i normalisti di Ayotzinapa. Nulla di questo sarebbe successo se avessero agito.

13 gennaio 2015

La Jornada

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Luis Hernández Navarro, “Iguala, la ciudad del infierno” pubblicato il 20-01-2015 in  La Jornada, su [http://www.jornada.unam.mx/2015/01/13/opinion/018a1pol] ultimo accesso 23-01-2015.

 

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