Convergenza Arabia Saudita-Israele: la mano che a tradimento colloca il pugnale


Raúl Zibechi

L’offensiva militare israeliana contro la Striscia di Gaza non avverrebbe senza l’appoggio di alcuni governi alleati. Washington sostiene con fermezza qualsiasi iniziativa israeliana, così come alcuni paesi europei. In questa occasione, nonostante ciò, Tsahal ha contato sul fervido concorso della Casa Saud, impegnata a rovesciare i governi siriano e iraniano.

“Io ti posso garantire la protezione dei Giochi Olimpici Invernali a Sochi. I gruppi ceceni che minacciano la sicurezza dei giochi sono controllati da noi”, annunciò a sorpresa il principe al presidente. Continuò ostentando la possibilità di “pianificare una strategia russo-saudita sul prezzo del petrolio”, per mantenere la stabilità dei mercati mondiali. Vladimir Putin appena poté contenere l’ira fino alla fine della riunione, avvenuta a Mosca nell’agosto del 2013, scrive il giornalista statunitense Robert Parry (consortiumnews.com, 31 dicembre 2013).

Lo stile squadrista, ma diretto e sincero del principe saudita Bandar bin Sultan, capo dei servizi segreti e segretario generale del Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’Arabia Saudita, andò in pezzi nel suo tentativo di far abbandonare a Putin la mano del presidente siriano Bashar al-Assad. In quel momento, la guerra civile siriana cominciava a girare a favore del regime grazie al potente appoggio russo, e tutta la strategia saudita minacciava di venir giù.

Peggio ancora. Si stavano facendo i primi passi per un avvicinamento tra gli Stati Uniti e l’Iran, consolidato nel novembre del 2013, chiamato a sconvolgere lo scacchiere geopolitico del Medio Oriente, lasciando tutta la strategia saudita ad andare per aria. Per Riad, il nemico numero uno sono l’Iran e le masse arabe mobilitate, e qualsiasi cambiamento della posizione di Washington significa un pantano. Sono stati momenti difficili per la Casa Saud, che è stata portata a prendere le distanze (relative) dal suo più fermo alleato, ma soprattutto a cercare nuove alleanze, fino a trovare in Israele il suo socio più fermo per lottare in una regione che, dall’inizio della Primavera Araba, minacciava di lasciare le monarchie fuori dal gioco.

Riposizionamento saudita

La terza settimana di febbraio 2014, una nutrita delegazione saudita del settore della Difesa ha viaggiato in Pakistan. Secondo il giornalista brasiliano Roberto Lopes, laureato nel Collegio di Studi per la Difesa Emisferica dell’Università della Difesa Nazionale di Washington (Fort Leslie McNair), assicura che i sauditi furono delusi dagli annunci del governo di Barack Obama di ritirare le truppe dall’Iraq e dall’Afganistan, e soprattutto “del rifiuto di Washington di attaccare le installazioni nucleari dell’Iran e di abbattere il governo di al-Assad mediante bombardamenti, come avvenne in Libia” (Defesanet, 2 febbraio 2014).

Riad negozia l’acquisto dal Pakistan di missili cinesi Dong Feng capaci di raggiungere Teheran e Bagdad, di sottomarini convenzionali che compra dalla Germania e forse di caccia multifunzione cinesi, per dipendere meno dagli statunitensi F-15. Le forze armate saudite contano su 250 mila soldati e 300 aerei, essendo uno dei maggiori compratori di armi al mondo.

Tre mesi dopo Riad ha effettuato una gigantesca operazione militare di difesa, che ha coinvolto nel paese 130 mila militari, e che è terminata il 29 aprile con una enorme sfilata militare alla quale sono state invitate autorità dei paesi del Golfo e del Pakistan. Le esercitazioni sono coincise con il nono anniversario dell’arrivo al trono di Abdullah e in quelle sono stati mostrati, per la prima volta, missili di lunga gittata Dong Feng-3, probabilmente con ogive nucleari multiple, comprati dalla Cina nel 1987, che hanno una gittata fino a cinquemila chilometri.

Il direttore di Defesanet, Nelson Düring, ha evidenziato che la sfilata è avvenuta pochi giorni dopo la visita del presidente Barack Obama a Riad, fatto che è stato interpretato come “un chiaro messaggio a Washington, al regime degli ayatollah iraniani e ai russi, per cui l’Arabia Saudita è entrata in un processo di indipendenza, in difesa dei propri interessi contro la continua espansione di armamenti nucleari dell’Iran”. Termina la sua analisi con quello che era già un fatto compiuto, “un crescente avvicinamento strategico con Tel Aviv, che sarebbe stato impensabile alcuni anni fa” (Defesanet, 4 maggio 2014).

Anche se non ci sono dati precisi, si sa che l’Arabia Saudita contribuì a suo tempo a finanziare il programma nucleare del Pakistan con 1.500 milioni di dollari, paese che ora potrebbe stare fornendo ogive nucleari al Riad.

Colpire hamas

Appena 48 ore prima della sfilata militare saudita, il primo ministro israeliano Benjamín Netanyahu ha dichiarato che la minaccia delle armi iraniane è simile a quella che ha rappresentato il nazismo per gli ebrei. Non ha detto una parola delle armi di Riad. Nei fatti, israeliani e sauditi condividono le stesse posizioni nel mondo, ciò che Parry chiama come “comunità di interessi”, che con la Primavera Araba è diventata sempre più evidente.

Ambedue vedono l’Iran come il loro principale avversario, i due hanno appoggiato il colpo di stato in Egitto contro i Fratelli Mussulmani, rifiutano le riforme democratiche nel mondo arabo e sostengono la caduta di Al Assad. La Casa dei Saud ha giocato un ruolo importante nella caduta del regime di Muammar Gheddafi, di fatto, in buona parte delle azioni illegali appoggiate da Washington. Bandar bin Sultan, il “principe favorito della CIA” secondo il quotidiano israeliano Haaretz, è stato un pezzo chiave nell’aiutare la contra nicaraguense e nel finanziare i mujaheddin afgani contro i sovietici (Haaretz, 25 luglio 2012).

L’attacco alla Striscia di Gaza è, di fatto, la prima operazione congiunta di una certa portata tra sauditi e israeliani. “L’attacco a Gaza avviene per decisione dell’Arabia Saudita”, scrive David Hearst, caporedattore del Middle Easte Eye. Diverse autorità di Tel Aviv parlano di questo in pubblico, assicurando che “i fondi sauditi e degli Emirati sarebbero utilizzati per ricostruire Gaza una volta che venisse neutralizzata Hamas” (Middle East Eye, luglio 2014).

Secondo la loro opinione, l’alleanza tra Israele e l’Arabia Saudita si deve per il fatto che condividono i medesimi timori. Hanno i medesimi nemici e identici alleati. Condividono, inoltre, metodi molto simili, come lo dimostra la carriera di Bandar. “I sauditi stanno finanziando la molto cara campagna di Israele contro l’Iran”, avverte il Middle East Eye, per terminare dicendo che “per la prima volta nella storia di ambedue i paesi c’è un’aperta cooperazione tra due potenze militari”.

Nonostante la nuova alleanza, i calcoli di Netanyahu stanno fallendo. Ha considerato che fosse il momento di colpire Hamas perché la considerava debilitata per la riduzione dei flussi finanziari iraniani e per la svolta a destra in Egitto, perché ha creduto che gli abitanti di Gaza si sarebbero rivoltati contro Hamas e che l’appoggio dell’Egitto e dell’Arabia Saudita non avrebbe avuto crepe.

Nessuna delle tre supposizioni ha funzionato. Hearst scrive: “Gli abitanti di Gaza, quando sono cominciati i bombardamenti, hanno detto a sé stessi che fondamentalmente avevano due opzioni: morire ora, o una morte lenta dopo. Hanno scelto la prima. La resistenza ha avuto una seconda opportunità, senza che avesse importanza quale organizzazione la guidasse. Hamas si è vista favorita perché è il movimento più grande e più attivo, ma anche in un luogo così controllato come la Cisgiordania, dove la lealtà verso Fatah è profonda, la resistenza è tornata ad essere la principale corrente” (Middle East Eye, 5 agosto 2014).

I regimi di Egitto e Arabia Saudita subiscono un forte discredito dopo che Tel Aviv aveva divulgato l’appoggio ai bombardamenti contro Gaza. Secondo Hearst, più che il rifiuto, ambedue i regimi sentono “umiliazione”. Ma fa un passo in più, affermando che i palestinesi fuori di Gaza stanno reagendo con una corrente di simpatia verso la popolazione della striscia che, come si sa, ha un comportamento politico ben diverso da quella della Cisgiordania e dai palestinesi che vivono in Israele. “La guerra a Gaza potrebbe stare ponendo le basi per un’altra intifada”, è la sua conclusione.

Putin nel mirino

Nonostante l’iniziale gazzarra, le indagini sull’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines sta prendendo una direzione contraria a quella che si aspettava Washington. Un giornalista ben relazionato con i servizi segreti statunitensi come Parry, che nel 1985 rivelò lo scandalo Iran-Contra, per finanziare i controrivoluzionari nicaraguensi per abbattere il governo sandinista, ha rivelato che coloro che il 17 luglio hanno sparato all’aereo passeggeri sono dei militari ucraini, che in realtà avevano nel mirino l’aereo presidenziale di Putin, che volava vicino a quella zona.

“È stato un tentativo fallito da parte di estremisti del governo dell’Ucraina per assassinare il presidente russo”, scrive Parry citando “analisti dello spionaggio” (http://consortiumnews.com/, 8 agosto 2014). I servizi sono giunti a questa conclusione non trovando prove che la Russia o le milizie pro-russe dell’Ucraina fossero coinvolte nell’episodio. Al contrario, l’esercito di Kiev dispone di batterie Buk lungo l’itinerario del volo. Ma la prova maggiore è che nei resti dell’aereo della Malaysia si possono vedere con totale chiarezza tracce di spari, fatto che indica che l’aereo è stato abbattuto da un attacco aria-aria, probabilmente da parte dei due SU-25 che sono stati individuati a pochi chilometri dall’aeroplano.

Lo spionaggio russo e quello statunitense starebbero puntando su settori neonazisti ai quali il nuovo governo ha ceduto vari ministeri o sull’oligarca Ihor Kolomoishy, nominato governatore della regione di Dniepropetrovsk, conosciuto per il suo odio verso Putin. Anche la prima ministra Yulia Tmoshenko ha fatto un appello per “uccidere questi maledetti russi insieme al loro leader” (http://consortiumnews.com/, 8 agosto 2014). La domanda se il saudita Bandar, che ha deciso di rinunciare al suo incarico come capo dello spionaggio, ma continua al comando del Consiglio di Sicurezza Nazionale, sarebbe in relazione con l’abbattimento del volo della Malaysia, inquieta molti analisti.

Secondo Parry, l’azione senza controllo di elementi ucraini apre alla “possibilità di una crisi a cascata fuori dal controllo di politici razionali”, che è maturata il 22 febbraio a partire dalla caduta del governo legale. In qualche modo, dice, i politici occidentali dovrebbero riflettere sulle conseguenze che avrebbe avuto un attentato contro la vita del presidente della Russia.

Nonostante ciò, sembra che gli strateghi del Pentagono stiano vedendo il mondo in un altro modo. Il 31 luglio si è conosciuto un documento elaborato dal Comitato di Difesa Nazionale intitolato “Assicurare per il futuro una forte Difesa degli Stati Uniti”, nel quale si sostiene la necessità di fare fronte simultaneamente a cinque o sei guerre, includendo nazioni che possiedono armi nucleari.

La commissione che lo ha redatto è presieduta da William Perry, segretario della Difesa durante il governo di Bill Clinton, e da John Abizaid, ex capo del Comando Centrale, oltre a membri di ambedue i partiti e vari generali in ritiro più influenti civili. Il testo di 84 pagine avverte che i principali pericoli che affronta il paese sono “il crescente potere della Cina e della Russia, seguiti dalla Corea del Nord, Iran, Iraq, Siria” (http://www.wsws.org/, 6 agosto 2014).

Il documento prevede un radicale cambiamento della dottrina di guerra, che dalla caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 si era proposta di lottare simultaneamente in due conflitti importanti. Il testo evidenzia che le minacce che affronta il paese sono maggiori, fatto che porta i suoi autori a considerare che “la capacità di combattimento su scala mondiale è la condizione sine qua non di una superpotenza ed essenziale per la strategia di sicurezza nazionale”. Tra i luoghi dove nel futuro visualizzano possibili combattimenti, risaltano la penisola di Corea, i mari dell’Est e del Sud della Cina, l’Asia del Sud, il Medio Oriente e “probabilmente l’Europa”.

Il rapporto elaborato dalle diverse ali dei due partiti, sottolinea la priorità della spesa militare al di sopra delle spese sociali, come modo di sostenere la potenza militare del paese. Una scommessa complessa in un paese dove ci sono più persone che dipendono dagli aiuti statali di quelle che hanno un lavoro formale senza restrizioni e il cui sistema pensionistico mostra segnali di collasso (Geab N° 86, giugno 2014).

Il ritorno dei figlioli prodighi

Il rompicapo del Medio Oriente si sta ricomponendo con una rapidità sorprendente. Agli inizi di agosto la Russia e l’Iran hanno raggiunto un importante accordo per ridurre le sanzioni occidentali a Teheran. Imprese russe parteciperanno nel settore elettrico iraniano, venderanno macchinari, equipaggiamenti e beni di consumo in cambio di petrolio la cui vendita è attualmente bloccata da parte dell’Occidente (Russia Today, 5 agosto 2014).

La Russia ha proibito l’importazione di prodotti occidentali per rappresaglia alle sanzioni che subisce da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e, allo stesso tempo, Washington ha cominciato l’attacco aereo di regioni controllate dallo Stato Islamico, iniziando un processo che Barack Obama ha predetto come di lungo respiro.

L’Arabia Saudita torna a giocare un ruolo centrale in questo complesso scenario. Ugualmente agli Stati Uniti, le trovate per dare una soluzione ad un problema alla fine si rivoltano contro: il nuovo germoglio di Al Qaida, lo Stato Islamico, minaccia la Casa di Saud. Riad ha mobilitato 30 mila soldati sulla frontiera con l’Iraq dopo che i jihadisti hanno annunciato che il loro prossimo obiettivo è l’Arabia Saudita.

“Dopo la campagna dello Stato Islamico in Iraq è diventato evidente che né la scienza militare straniera, né i moderni mezzi di combattimento, sono capaci di frenare i processi iniziati molti anni fa, anche da influenti forze del regno dell’Arabia Saudita”, riflette un giornalista russo (Ria Novosti, 9 agosto 2014). Si riferisce all’opzione saudita di ridurre le tensioni interne (insopportabili in un paese governato da una tirannia feudale), esportando i loro portatori.

In questa “esportazione”, hanno trovato un appoggio inestimabile nella CIA, che ha contribuito a mantenerli occupati, prima in Afganistan, dopo nel resto del mondo.

Lo scorso maggio Riad ha scoperto una cospirazione terrorista legata allo Stato Islamico. Una organizzazione creata per abbattere nemici, minaccia di rivoltarsi contro l’inventore, qualcosa che non è nuovo in nessuna sfera della società. Per questo è necessario fare un esercizio di memoria: nel 1979 nell’ambito del clima creato dalla rivoluzione iraniana che abbatté lo scià, 500 estremisti religiosi occuparono la Grande Moschea a La Mecca, chiedendo la fine della monarchia saudita e l’espulsione dal paese degli “infedeli”, tra i quali figuravano le grandi imprese occidentali.

Nei combattimenti per sgomberarla, la moschea fu distrutta e 63 terroristi furono decapitati in pubblico. Uno dei sospettati, “un tale Mahrous bin Laden”, fu liberato. Il principe Turki bin Faisal Al Saud, direttore dello spionaggio fino a dieci giorni prima degli attentati dell’ 11 settembre 2001, suggerì a Bin Laden di dirigersi in Afganistan per appoggiare i mujaheddin. Il resto della storia è più conosciuto. Nel 2002, il nome del principe Turki apparve nella multimilionaria denuncia delle famiglie delle vittime dell’ 11 settembre, adducendo il fatto che avrebbe potuto finanziare i terroristi coinvolti nell’attacco. Il principe Turki fu nominato ambasciatore negli Stati Uniti, al posto di Bandar bin Sultan, che aveva occupato l’incarico per niente meno che 22 anni, anche durante gli attentati alle Torri Gemelle, essendo prima, durante e dopo, un protetto della famiglia Bush e della CIA.

L’ultimo capitolo, per ora, sono i bombardamenti sullo Stato Islamico nel nord dell’Iraq. Con ragione, Robert Fisk, denuncia la “suprema ipocrisia” della Casa Bianca che non si è sdegnata mentre i jihadisti assassinavano siriani e sciiti iracheni, ma ora si dispone a “salvare” i rifugiati cristiani (La Jornada, 9 agosto 2014). Nonostante ciò, vista la necessità di Obama di continuare ad essere legato alla Casa di Saud: sarebbe insensato pensare che gli attacchi aerei sullo Stato Islamico siano il modo di salvare, una volta di più, la monarchia feudale dalla quale da sette decenni dipende, per mantenere in riga i popoli arabi?

20/08/2014

Lavaca

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl Zibechi, “Confluencia Arabia Saudí-Israel: la mano que mece el puñalpubblicato il 20-08-2014 in Lavaca, su [http://www.lavaca.org/notas/confluencia-arabia-saudi-israel-la-mano-que-mece-el-punal/] ultimo accesso 28-08-2014.

 

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