“Ci uccideranno per le nostre terre”


Umawtufe Wenxu e Darío Aranda

Félix Díaz, la lotta qom e la resistenza mapuche. Le imprese estrattive e i governi. Il razzismo argentino e l’unione dei popoli indigeni.

Il referente qom Félix Díaz ha visitato Neuquén invitato a parlare della lotta indigena e della criminalizzazione della protesta sociale. Ha ricordato il suo risveglio nella lotta, la situazione a Formosa, la necessità di organizzarsi con altri popoli e il consolidamento del Consiglio Plurinazionale Indigeno. E, chiaramente, ha parlato della difesa del territorio, del ruolo delle multinazionali e dei governi. “Siamo una nazione preesistente, che convive con una società che probabilmente si dice civilizzata, intellettuale, e che ci nega il diritto ad avere elementi distintivi indigeni”, spiega Díaz e rimarca la priorità di rafforzare l’unità dei popoli indigeni.

-Perché è venuto a Neuquén?

-Avevo la necessità di tornare, di sapere qualcosa dei fratelli, riprendere le cose stavamo facendo. Volevo sapere cosa stava accadendo qui, perché a Formosa abbiamo molti conflitti e siccome noi ci concentriamo su questo sembrerebbe che non ci siano conflitti nelle altre province. È bene essere qui, per informaci della realtà delle comunità mapuche.

-Che ha potuto osservare a Neuquén?

-Siamo andati nella fabbrica Zanón (attualmente Fasinpat), una esperienza molto bella, essere amministratori di sé stessi. Per me è un’esperienza molto nuova, quella di vedere i lavoratori essere padroni di sé stessi. Immagini che noi siamo quelli che forniamo mano d’opera, risorse naturali e viviamo nell’estrema povertà, perché gli impresari sfruttano gli operai, con l’appoggio dei governi. E noi siamo sempre le vittime perché non abbiamo la possibilità di poter prendere delle decisioni sulla nostra stessa organizzazione, sulle nostre risorse, non abbiamo questa autonomia per mancanza di risorse.

-È stato anche ad Añelo? (località principale di Vaca Muerta)

-È deplorevole la situazione che stanno passando lì. È simile a ciò che succede nella zona wichi di Formosa, con imprese petrolifere insediate nel territorio. Non hanno scuole, abitazioni, luce, acqua. Non ci sono nemmeno le strade. Nonostante ciò abbiamo la legge che garantisce i diritti umani dei popoli indigeni. La legge c’è, ma non è rispettata. Molti di questi problemi ci sono perché non conosciamo le leggi che ci proteggono.

-Ha potuto conoscere la lotta contro il fracking che c’è a Neuquén?

-Sì. E ho visto una organizzazione molto forte tra i sindacati, le organizzazioni sociali ed indigene. È molto produttivo che si organizzino e lottino insieme. La verità è che questo è molto incoraggiante, ma c’è sempre il momento in cui i partiti politici e le organizzazioni confondono il ruolo dei popoli indigeni e vogliono cooptarli. E i media aiutano a confondere.

-Come giocano i mezzi di comunicazione?

-I media sono fondamentali per i popoli indigeni. Noi qom abbiamo la nostra propria lingua materna, per mezzo della quale noi traduciamo i comunicati ufficiali e le notizie di internet, per fare un panorama della situazione nazionale. E la gente, ascoltando tutto questo, si rende conto della manipolazione dei mezzi di comunicazione. Il quarto potere, i giornalisti, negoziano l’informazione. Noi popoli indigeni conserviamo ancora l’onestà, la capacità di rispettare la parola, che può essere un’alternativa per la società, quella di ascoltare una voce onesta.

-Cosa fare affinché la voce indigena sia ascoltata di più?

-È uno spazio da costruire. Uno strumento può essere la Legge dei Servizi di Comunicazione Audiovisivi, deve aiutarci a sviluppare la nostra identità culturale. Abbiamo bisogno che la comunicazione indigena non sia manipolata, lo stesso indigeno deve difendere il proprio pensiero; che è ciò che vogliamo e come vogliamo fare le cose. È la stessa cosa con l’educazione, è necessaria la partecipazione indigena.

-Quale è il ruolo dei giovani indigeni?

-La speranza è nei giovani, che sono quelli che dovrebbero difendere questo progetto di partecipazione, affinché domani siano i protagonisti della lotta. Ma la lotta è di tutti, non solo degli indigeni, ma di tutta la società.

Formosa

-Quando e come è avvenuto il risveglio della coscienza della lotta per i diritti?

-Ritrovarsi con sé stessi non è stato facile. Riprendere la mia identità è stato un cambiamento che ha avuto a che vedere con lo stare in varie organizzazioni. Mi sono ritrovato con me stesso nel 2001. Ho sempre pensato come indigeno, ma nei partiti politici in cui sono stato mi hanno tolto questo pensiero. I miei capelli erano sempre lunghi, come ora, ma nell’Esercito mi hanno rasato, mi sentivo così inutile, perché mi hanno denudato della mia identità e mi hanno posto una maschera, e senza rendermi conto di questo processo, nell’Esercito ho dovuto apprendere a parlare spagnolo, nemmeno sapevo leggere. Hanno cambiato il mio modo di essere, tenevo sempre i capelli corti, perché questo era essere “civilizzato”. Non sei più un indigeno, mi hanno detto, ora sei cristiano.

Con questo punto di vista ho lavorato in vari settori sociali, identificandomi con la chiesa, con dirigenti di sinistra come il Che Guevara, Fidel Castro. Lì ho incominciato a pensare di essere contadino, e non di essere indigeno, che i miei figli fossero avvocati, medici. Il voler “essere qualcuno” mi ha fatto dimenticare di essere indigeno.

Nel 2000 ho realizzato una serie di interviste ad anziani, una indagine sulla mia propria identità. Lì ho potuto riscoprire la nostra identità culturale. E mi rendo conto di quanto importanti siamo. Riprendendo di nuovo questa naturalezza dell’essere indigeno. E questo mi è costato molto dolore, perché coloro che credevo fratelli nella chiesa, amici in questi partiti e settori sociali si sono dimenticati di me e si sono messi contro. Ho lottato contro questo con il mio essere indigeno. Mai ho avuto paura di essere indigeno. E ho potuto riuscirci mediante l’onestà e facendo qualcosa per la gente, e non condizionando l’altro per dargli una mano. Quando posso fare qualcosa, lo faccio, ed è per tutti.

Dobbiamo uscire da questa gabbia che ci hanno posto. È un arricchimento sapere ciò che sono. Non siamo qualcuno. Siamo una nazione preesistente, che convive con una società che probabilmentesi dice civilizzata, intellettuale, e che ci nega i diritti perché abbiamo lineamenti indigeni, pensiamo come indigeni, agiamo in comunità. Se noi non denunciamo, se non difendiamo la nostra cultura, nessuno lo farà per noi.

-Quale è la situazione attuale a Formosa?

-Continua la lotta, continua la persecuzione della Giustizia, del governo provinciale e del governo nazionale. Abbiamo ottenuto dei cambiamenti, dei passi importanti, di metterci nella lotta sotto la guida degli anziani. I nostri problemi si risolveranno con migliori strategie politiche, con organizzazione, mediante il dialogo, una strategia che sia partecipativa facendo parte di questa costruzione che sarà benefica per tutte le comunità. Ed è una sfida molto grande la lotta contro le imprese estrattive.

-Perché?

-Al Nord ci sono pozzi petroliferi, allevamenti, soia, e ora si stanno impadronendo delle acque. È un pericolo per gli indigeni, perché per lo stato il territorio indigeno che “non si usa”, credono sia terra improduttiva. E ci uccideranno per le nostre terre, non con le armi, ma ci isoleranno, con l’ignoranza e negando tutti i nostri diritti. Per superare questo, bisogna essere uniti. Per noi, siamo vissuti difendendo le risorse naturali, vogliamo far parte della politica che regola l’uso delle risorse, per questo l’importanza della preparazione dei nostri giovani e di discutere da uguale ad uguale con le multinazionali.

-Sente discriminazione verso i popoli indigeni?

-Sì, c’è molta discriminazione. Un esempio, nel nostro territorio c’è una fondazione di italiani, tedeschi, iugoslavi, polacchi, che vivono da anni nel nostro territorio. E parlano nella loro lingua e nessuno gli dice nulla. Ma quando noi parliamo in qom, ci dicono “parlate come la gente”. Allora sembrerebbe che non apparteniamo alla società civilizzata, alla società intelligente che dicono essere. Molti voglio sviluppare le proprie capacità, ma con lo sfruttamento dell’altro.

Nazionale

-Perché l’organizzazione dei distinti popoli nel Consiglio Plurinazionale Indigeno?

-Ogni volta che esco dalla mia comunità mi sorprendo. Non ho mai creduto che in Argentina vivessero moltissimi popoli, che hanno una grande ricchezza a cui nessuno dà importanza. Allora l’ideale è che noi costruiamo la nostra propria organizzazione, per difendere quanto è nostro. Imprenditori, stati e partiti politici si organizzano per espropriare la nostra cultura, la nostra sapienza, la nostra natura. Se non facciamo nulla, domani pagheremo il costo di questa violazione dei diritti umani, senza territorio, senza cultura e dipendendo da uno stato che ci ha colonizzati. Ed è molto triste se giungiamo a perdere le nostre radici. Per questo sono importanti le nostre radici. Il futuro è alle nostre spalle. In questo processo stiamo lasciando delle orme alle generazioni che verranno, stiamo fissando le orme dei nostri antenati. Indietro, nei nostri antenati è il futuro. Questo archivio bisogna tutelarlo.

-Come trovare degli alleati in questa lotta?

-Uno non può rinchiudersi. Cerchiamo alleanze. Vogliamo aprire porte, essere ascoltati e ascoltare l’altro. La politica indigena fa parte della ricostruzione di una società con molte carenze. Noi abbiamo la certezza di far parte della speranza della società, siamo un’alternativa alla società.

-Quale è il ruolo dello stato?

-Noi lottiamo affinché questi punti di vista di dipendenza siano disarticolati. Vogliamo essere autonomi, ma non vogliamo separarci dallo stato. L’obiettivo è condividere con la società tutto ciò che sappiamo e facciamo, ma mantenendo la nostra identità culturale come popolo. Noi parliamo sempre di “noi”, mai usiamo l’ “io”. Mai diciamo io voglio, ma, noi vogliamo. Stando qui a Neuquén c’è una coincidenza di propositi in questo senso, è il modo di essere dei popoli indigeni, e questo è molto buono, nonostante la distanza. Nonostante che parliamo lingue diverse, abbiamo il medesimo pensiero.

-Come vede il futuro?

-Continueremo a lavorare, a cercare di fare qualcosa di positivo, e a non vedere l’altro come nemico, ancor meno tra indigeni. Il nemico è il potere economico. Molti dei nostri fratelli si sono venduti allo stato per le briciole, non è colpa loro, ma di un sistema che ci impone povertà. Dobbiamo avanzare per un cammino proprio, di cui ci possiamo occupare, rafforzandoci, scambiare informazioni ed essere vicini agli altri. Bisogna unirsi agli altri per difendere quanto è nostro. Dobbiamo sentire questo cuore umano che abbiamo, rafforzandolo con gli altri. Non dobbiamo lasciare che il cuore si raffreddi, perché il cuore freddo uccide, ignora, maledice e cerca di impadronirsi di quanto è altrui.

L’idea è di continuare ad apprendere, di costruire qualcosa proprio degli indigeni. Io non sono mapuche, ma in territorio mapuche mi sento parte della famiglia. Magari che i mapuche conoscano il territorio qom, affinché sappiano chi siamo. Dobbiamo rafforzare l’unità dei popoli indigeni.

8 maggio 2014

ODHPI

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Umawtufe Wenxu y Darío Aranda, “Nos van a matar por nuestras tierraspubblicato il 08-05-2014 in ODHPI, su [http://odhpi.org/2014/05/nos-van-a-matar-por-nuestras-tierras/] ultimo accesso 04-06-2014.

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