Ricordi di repressione: terrore, ribellione e la guerra del narco


Dawn Marie Paley

Nel 2010 e nel 2011 varie bombe a mano sono esplose nei municipi di Reynosa, Matamoros, Nuevo Laredo e Ciudad Victoria, quattro località frontaliere messicane nello stato di Tamaulipas.

Come autore delle esplosioni fu indicato il crimine organizzato, concretamente i membri degli Zeta o del Cartello del Golfo. Visitai la zona agli inizi del 2011 cercando di verificare cosa potesse portare dei gruppi di delinquenti a scontrarsi con i governi locali che, in effetti, sono sotto il loro controllo.

I pezzi non cominciarono ad incastrarsi fino a quando nel 2011 conobbi Francisco Chavira Martínez. La prima volta che ci incontrammo propose di andare a mangiare in un ristorante di Reynosa conosciuto per i suoi ospiti di grande importanza. Camerieri in smoking da pinguino andavano e venivano con vassoi mentre gli altri tavoli erano, nella loro maggioranza, occupati da uomini anziani. Chavira parlava a voce alta e senza paura. Intervistai almeno dodici persone, ma Chavira fu l’unico di tutti gli intervistati che permise che il suo vero nome fosse utilizzato.

I governi locali “utilizzano i ladri d’auto per tutto quello che è contro di loro, li mandano a rubare la loro auto, i ladri d’appartamento, i ladri domiciliari come li chiamano, entrano a rubare a casa tua per spaventarti, i narcotrafficanti, che utilizzano in modo che la gente abbia paura, affinché tu non partecipi, affinché non alzi la voce, affinché tu non stia contro il governo, loro stessi li mandano a tirare granate anche alle presidenze municipali”, raccontò Chavira.[1]

Forse vide la mia incredulità riflessa sul viso. Non avevo ancora compreso il meccanismo del terrore e gli interessi a cui serve. “Perché?”, si domandò tra sé, per fare una pausa subito dopo. “Affinché la gente si spaventi e non vada a chiedere conto alla presidenza, né chieda trasparenza nei conti pubblici, per cosa è speso il denaro, perché se no, se lo faccio, mi uccideranno, mi metteranno una granata”. Mesi dopo la nostra intervista, Chavira, candidato del Partito Rivoluzionario Democratico (PRD), presuntamente di carattere di sinistra, fu arrestato con false accuse e incarcerato fino ha quando passarono le elezioni, un episodio che descrisse come un “sequestro legalizzato” da parte dello stato.

La seconda volta che mi riunii con Chavira fu due anni dopo, nel 2013. Ci incontrammo casualmente di fronte al portone dell’ambasciata statunitense a Messico D.F. durante una manifestazione organizzata dai familiari e dagli amici degli immigranti che lavorano senza documenti negli Stati Uniti. Andammo in una vicina caffetteria e gli feci una piccola intervista. Mentre stavamo camminando si meravigliava di poter camminare tranquillamente per strada senza paura, qualcosa di impensabile nella sua città di origine.

Le parole che Chavira mi concesse in quel incontro richiedono una piccola introduzione. La versione ufficiale della guerra del narco o guerra contro le droghe, che i governi e i mezzi di comunicazione non smettono di ripetere ogni volta, è che la guerra che c’è in Messico è tra i cattivi (i trafficanti di droghe) e i buoni (la polizia e l’esercito, che contano sull’appoggio di Stati Uniti, Canada e paesi dell’Unione Europea). Secondo questa versione dei fatti, i “cattivi” hanno la seguente struttura gerarchica: in cima alla piramide ci sono i capi o signori della droga, dopo vengono i generali o capi della sicurezza che proteggono il capo e le sue zone; dopo vengono i capi della piazza, capi locali che si incaricano in particolare di una zona di frontiera o di una determinata zona di distribuzione.

Questa versione (che è la principale) è ciò che io chiamo il discorso sulla guerra tra i cartelli. Questo discorso possiede alcuni elementi da commentare: fiducia quasi esclusiva nelle fonti di informazione governative e/o statali, fede nel fatto che tutti siano colpevoli fino a quando è dimostrato il contrario e che ci siano vittime che si vedono coinvolte nel traffico della droga e una ampia percezione che i poliziotti implicati nelle attività delinquenziali sono l’eccezione e non la norma, e che con più presenza della polizia aumenta la sicurezza.[2]

Qualcosa come più di due anni fa cominciai ad informare e indagare sulle differenti sfaccettature della trasformazione che sta vivendo il Messico, che secondo la mia opinione è una specie di controrivoluzione e un prolungamento del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord che viene portato a termine mediante un intenso processo di militarizzazione. Una volta che uno analizza le conseguenze sociali ed economiche della “guerra del narco”, le versioni ufficiali su quello che succede smettono quasi completamente di aver senso. Dette versioni cercano di offuscare la reale dinamica, invece di gettare luce. Ciò che apprendo da gente come Chavira è quello che mi permette di conoscere ciò che realmente succede in questo Messico in guerra.

Lontani da possibili sguardi, sul balcone del cortile posteriore di un caffè-libreria nella zona della manifestazione a Messico D.F. (giusto di fronte all’ambasciata degli Stati Uniti), Chavira era di nuovo come quell’uono che eliminarono dalla scena e inviarono in prigione. Di fatto, per vivere ha passato dei buoni momenti negli otto mesi che è stato rinchiuso, lavorando con gli altri detenuti per migliorare la loro situazione e collaborando affinché i bambini che vivono in prigione con i propri genitori potessero avere una infanzia il più normale possibile. Domandai a Chavira se poteva spiegare come la guerra del narco interagiva con lo stato messicano. “Dal mio punto di vista, penso che il vero delinquente, il vero capo in Messico sia il Presidente della Repubblica, e i governatori lo sono nei loro rispettivi stati, e i capi della piazza vengono ad essere i sindaci”, mi disse Chavira. “Perché tutti sono venuti con un finanziamento della propria campagna elettorale, con denaro di provenienza illecita”.

Parlammo ancora per un po’ di tutta la situazione in generale: emigrazione, vittime (lui considera che il numero ufficiale delle vittime dovute alla guerra del narco dal 2006, che oscilla tra le 60.000 e le 70.000, rappresenti soltanto una frazione delle vittime totali), e delle nostre stesse vite. Così come la prima volta, la conversazione finì ed io avevo ancora altre domande sulla guerra, ma avevo anche la ferrea convinzione che dare spazio ad altri punti di vista e voci della guerra in Messico era un compito urgente ed importante.

Terrore e il piano emisferico

Quello che attualmente sta avvenendo in Messico trova un precedente importante in un altro luogo dell’emisfero: la Colombia. Ci sono motivi per affermare che quanto avvenuto in Colombia sia un precedente della “guerra del narco” che oggi c’è in Messico. Per intendere l’attuale Messico bisogna comprendere il ruolo della Colombia a partire dall’anno 2000 dopo il Plan Colombia e i multimilionari investimenti che il governo statunitense realizzò nel paese con lo scenario di fondo della guerra contro le droghe in quel paese. Il Plan Colombia finì ufficialmente nel 2006, l’anno seguente l’Iniziativa Mérida, conosciuta anche come Plan México, fu messa in moto. Nel 2008, gli Stati Uniti diedero inizio all’Iniziativa Regionale di Sicurezza Per l’America Centrale (Plan América Central) e nel 2010 l’Iniziativa di Sicurezza della Conca del Caribe (Plan Caribe). Queste iniziative hanno come punto in comune la militarizzazione della polizia locale, statale e federale, così come un maggior dispiegamento di effettivi della polizia e dell’esercito per combattere (in teoria) i produttori di droghe, i trafficanti e i venditori.

La storia ci mostra che gli indici del traffico delle droghe con destinazione gli Stati Uniti non sono significativamente scesi dopo l’attuazione del Plan Colombia.

Nel mio saggio del 2012, “Il capitalismo narco”, affermavo che l’attuazione del modello del Plan Colombia in Messico e in altri luoghi non ha tanto a che vedere con la lotta contro le droghe ma con un miglioramento delle condizioni per gli investimenti del capitale straniero e per favorire l’espansione del capitalismo.[3]

Ma quando in Messico si tratta di utilizzare la repressione e il terrore come strumento, le tattiche impiegate dall’apparato repressivo dello stato vanno molto al di là dell’esperienza colombiana, si attingono da generazioni di soldati statunitensi e di altre potenze mondiali.[4] In questo contesto, considero che le precedenti situazioni di contro-insurrezione vissute in Centroamerica in generale e in particolare in Guatemala, dove gli Stati Uniti fornirono un aiuto, sono di massima importanza per intendere attualmente gli avvenimenti in Messico e nella regione. Anche se non c’è connessione apparente con l’attuale situazione del Messico, questi conflitti devono essere considerati come parte della memoria repressiva messa in moto per lanciare la cosiddetta “guerra del narco” in Messico, Centroamerica e altri luoghi.

Così come si esprime Laleh Khalili nella sua opera sulla Palestina e la contro-insurrezione, “ufficiali e soldati semplici, tecnologie di controllo e risorse non viaggiano solo attraverso colonie e metropoli ma lo fanno anche tra differenti colonie sotto il medesimo potere coloniale e tra differenti metropoli coloniali mediante le quali burocrati ed elite militari studiano e scambiano tecniche e si informano sui metodi di controllo più efficaci”.[5]

Ci sono alcuni riflessi di continuità tra le guerre (inclusi genocidi) perpetrate in Centroamerica negli anni 70, 80 e 90 che si possono osservare nell’attuale Messico. Per esempio, sono state identificate le granate utilizzate dagli Zeta nei loro attacchi in Messico, che datano dagli anni 80, quando gli Stati Uniti le vendettero all’esercito del Salvador.[6] Un altro indicatore che collega la guerra che colpì per 36 anni il Guatemala con l’attuale situazione sono i kaibili, le forze di elite del paese, i cui membri a suo tempo furono responsabili di atroci massacri e che attualmente continuano attivi come forze speciali del governo e come membri di gruppi criminali.[7]

Oltre a questi esempi concreti, molte delle pratiche per infondere terrore utilizzate da eserciti come quello del Guatemala sono risorte in Messico e Centroamerica per mano dei gruppi criminali. Nell’attuale guerra, la “guerra del narco”, la violenza dispiegata contro i civili, specialmente i più poveri e gli emigranti, proviene dalle truppe ufficiali e in uniforme, così come da un altro tipo di gruppi non ufficiali come cartelli o altri gruppi paramilitari.

Il primo significato di terrore del New Oxford American Dictionary definisce questa parola come “paura estrema: l’utilizzazione di detta paura per intimidire delle persone, specialmente per motivi politici; terrorismo”. Le uccisioni di massa e l’esposizione pubblica di cadaveri è un esempio di tecnica del terrore, praticata durante i secoli, da parte del governo e di altri gruppi non ufficiali, spesso protetti dall’imposizione di un regime economico e politico. Il terrore svolge un ruolo specifico nell’assicurare il controllo sul popolo.

“In tutte le sue forme, il terrore è concepito per distruggere lo spirito umano. Sia a Londra con la nascita del capitalismo o nell’attuale Haiti, il terrore infetta l’immaginario collettivo, propiziando un assortimento di demoni e mostri”.[8] Tanto se si tratta di cadaveri esposti al pubblico o tagliati a pezzi e impilati in un’autostrada o di esplosioni e massacri che lasciano decine di vittime civili, il Messico ha vissuto una serie di episodi raccapriccianti da quando il vecchio presidente Felipe Calderón iniziò la guerra del narco nel dicembre del 2006.[9]

Le sparizioni sono un’altra delle tecniche utilizzate contro civili e attivisti in Messico, dove almeno 26.000 persone (secondo dati di marzo 2013, da allora questa cifra molto probabilmente può essere aumentata) sono scomparse dall’anno 2006.[10] È una pratica diffusa in Centroamerica (la scomparsa di attivisti politici probabilmente è stata inventata in Guatemala), Colombia e altri luoghi. La scomparsa è una tattica di terrore selettiva perfezionata dagli eserciti del Centroamerica, che rapiscono e torturano le loro vittime prima di giustiziarle e interrare i loro cadaveri in fosse clandestine.

Le spaventose azioni che compiono i gruppi criminali contro la popolazione civile nell’ambito della “guerra del narco” appare spesso in televisione, nelle reti sociali e nei periodici. Sono pochi i mezzi di comunicazione che spiegano e contestualizzano la messa in pratica del terrore. Al contrario, parlano di violenza gratuita imprevedibile e senza senso. La polizia e l’esercito sono spesso riportate come le uniche istituzioni capaci di rispondere a questi attacchi, che cadono rapidamente nell’oblio, e i cui autori vengono abitualmente assolti con una totale impunità, opera dell’apparato repressivo dello stato e istituzionalizzata da questo. La diffusione di queste informazioni attraverso schermi, iPhones e tabloid di tutta la regione terrorizza la società nel suo insieme.

Parte di questa trasformazione è la trasformazione dei modi di vita e la socializzazione come parte di un cambiamento generale verso una società più repressiva. La mobilità, intesa come la capacità delle persone di muoversi liberamente per loro stessa volontà, si va restringendo con l’aumento della vigilanza frontaliera e i punti di controllo di polizia e militari, così come mediante la paura generalizzata attraverso gli assassini di massa di passeggeri di autobus, sparatorie nelle principali superstrade e le scomparse che avvengono quando la vittima sta lavorando. La mobilità ridotta è uno dei primi effetti che ha il terrore sulla popolazione colpita. Nel frattempo, le emigrazioni forzate e gli sfollamenti involontari aumentano, come parte della transizione verso una società più repressiva che esige vittime e minaccia i superstiti.

Nelle parole degli scrittori guatemaltechi Gomis, Romillo e Rodríguez agli inizi degli ottanta, “il dominio attraverso il terrore, oltre ad eliminare fisicamente quelli contrari agli interessi del regime, include anche la persecuzione da ‘farsi con il controllo di un universo sociale costruito grazie all’intimidazione perpetrata mediante atti di distruzione … (e con) atti di terrore si produce sempre un effetto generale su tutto l’universo sociale, ad un livello generale, da una serie di pressioni psicologiche che presuppongono un ostacolo di fronte ad una qualsiasi possibile azione politica”.[11]

Le nozioni di opposizione e di azione politica descritte nel precedente incontro non devono essere applicate alle guerriglie o a gruppi molto organizzati. L’obiettivo finale del terrore può essere così semplice come evitare che i cittadini richiedano alle istituzioni statali anche i minimi livelli di trasparenza, così come indicava Chavira all’inizio di questo articolo.

Chi sono gli insorti?

Il New Oxford American Dictionary definisce insorto come “ribelle o rivoluzionario”. Nel 2010, Hillary Clinton, vecchia segretaria di stato degli Stati Uniti, paragonò la situazione del Messico ad una situazione di insurrezione. “Sempre più assomiglia alla Colombia di venti anni fa” ha detto ai delegati in un atto del Council on Foreign Relations. La Clinton affermò che i cartelli della droga “mostrano sempre più tratti di insurrezione”.[12] Nel 2009, il responsabile delle forze armate degli Stati Uniti dichiarò che in Messico appoggerebbe l’uso della contro-insurrezione.[13]

Leggendo le informazioni del governo e della stampa attuale, uno si rende conto dell’insistenza nel rimarcare che la guerra in Messico non è politica. “Le bande messicane si muovono per il denaro e non possiedono una apparente agenda ideologica. Il loro unico obiettivo politico è debilitare l’attuazione della legge” dichiara un articolo del 2011 di Insight Crime, centro studi finanziato da George Soros.[14] Come ho già esposto in “Il capitalismo narco”, i gruppi criminali o narco (e specialmente gli Zeta) disimpegnano più un ruolo proprio dei gruppi paramilitari che dei gruppi insurrezionali.

“Gli Zeta sono una forza paramilitare”, mi ha detto il dottor William Robinson, autore di “Una teoria sul capitalismo globale”, quando lo intervistai nell’anno 2011. “Si tratta, fondamentalmente, della creazione di un paramilitarismo associato ad una militarizzazione formale, seguendo il modello colombiano”.[15]

La Colombia ha vissuto due ondate di paramilitarizzazione. La prima quando furono costituiti dei gruppi statali e appoggiati dalle elite negli anni sessanta e settanta, e quando detti gruppi agirono nei decenni degli ottanta e novanta.[16] La seconda ondata di paramilitarizzazione in Colombia ha avuto luogo quando l’industria della cocaina ha cominciato a produrre nuovi benefici per i narcotrafficanti locali, trasformandoli in un nuovo gruppo dell’elite le cui forze irregolari ricevevano il sostegno dello stato. Durante quest’ultima ondata è quando ha avuto luogo contemporaneamente il processo di militarizzazione e paramilitarizzazione menzionato da Robinson. Naturalmente, coloro che notarono di più l’effetto di questi processi furono i più poveri nelle zone urbane e rurali della Colombia, dove abitano più di quattro milioni di rifugiati interni. Secondo un articolo pubblicato in World Development, “i gruppi paramilitari non sono solo i principali responsabili, ma sono anche i più efficaci al momento di provocare gli sfollamenti”.[17]

Un esempio di come gli Zeta abbiano più tratti propri di un gruppo paramilitare che di un gruppo insurrezionale è evidente in fatti come l’assassinio di 72 immigranti a San Fernando, nello stato di Tamaulipas, nell’estate del 2010. Questo tipo di atti rispettano l’obiettivo statunitense di scoraggiare l’immigrazione proveniente dal Centroamerica. I massacri, i sequestri di massa e l’estorsione sono sempre atti politici per ottenere il controllo su una certa comunità o la sua eliminazione che, nel tempo, vuole terminare con il controllo del territorio che occupano.

Se interpretiamo il ruolo di gruppi come gli Zeta come qualcosa proprio più di un gruppo paramilitare che di un gruppo insurrezionale e riceviamo la notizia che gli Stati Uniti appoggiano una strategia di contro-insurrezione in Messico, allora dobbiamo chiederci: Chi sono gli insorti in questa guerra? Di fronte a questa situazione, è utile riflettere sulla recente storia del Guatemala.

Durante i 36 anni del conflitto armato, 200.000 persone furono assassinate, principalmente per mano dello stato, e altre 50.000 scomparvero. La guerra in Guatemala ha avuto tre grandi fasi. La prima, dal 1960 al 1980, è consistita in strategie clandestine e discriminatorie, principalmente dirette contro oppositori politici e di tendenza di sinistra. La seconda, una fase transitoria che durò soltanto un anno, nel 1981, che includeva, oltre alle strategie clandestine discriminatorie, terrorismo di stato di massa a faccia scoperta. Dal 1982 in poi, il paese ha vissuto la diffusione del terrore e di operazioni psicologiche progettate per controllare completamente la popolazione, specialmente le comunità maya, alcune delle quali si organizzarono politicamente. Le vittime del conflitto furono principalmente uomini, ma ci furono anche donne e bambini. Molte delle vittime furono giustiziate unicamente per appartenere ad un determinato gruppo sociale o etnico, non perché appoggiassero qualche ideologia. Anche se allora in Guatemala c’erano movimenti guerriglieri, le popolazioni rurali ed indigene nella loro totalità erano considerate come gruppi insorti nella guerra.

In Guatemala, “lo sviluppo del terrore e delle politiche di terrore hanno la loro origine dalla incapacità dello stato di far fronte ai conflitti sociali mediante metodi consensuali. Il loro obiettivo era di dissuadere qualsiasi tentativo di opposizione che sorgesse dalla società civile nel suo insieme o da specifici gruppi dentro questa”.[18] Questa opinione l’appoggia Kristian Williams nel suo prossimo saggio, dove dichiara che “da una prospettiva di contro-insurrezione, la resistenza non è unicamente che il popolo (o parte di questo) rifiuti di cooperare con lo stato; la resistenza è una conseguenza di uno stato che fracassa nel momento di soddisfare le necessità del proprio popolo”.[19]

Nell’attuale Messico, gli insorti potrebbero essere considerati membri di tessuti sociali estranei ai dettami dell’egemonia del mercato internazionale. I proprietari di terre delle comunità e i venditori ambulanti, gente che appartiene all’economia sommersa, potrebbero essere tacciati di insorti insieme ad immigranti ed indigeni. Questi gruppi hanno un punto in comune, come quelli che popolano le fosse comuni e coloro che sono vittime del giogo del terrore.

Una delle principali differenze tra le attuali guerre e quelle che colpirono il Centroamerica negli ottanta è che gli autori di molti dei massacri e degli atti più crudeli (anche se non tutti) perpetrati durante la guerra del narco sono i cosiddetti “cartelli della droga”. Questo dimostra come, oltre alle precedenti esperienze nei conflitti armati in Centroamerica, le tecniche repressive utilizzate in Colombia nel decennio dei novanta e del duemila stiano influenzando il processo bellico del Messico. Se applichiamo un punto di vista più generale della “guerra del narco” in Messico e osserviamo chi sono le vittime della violenza, è fondamentale considerare come le forze dello stato guatemalteco utilizzavano la parola insurrezione quando realmente l’obiettivo era tutta la popolazione nel suo insieme. Dapprima con l’esplicito appoggio degli Stati Uniti, che più tardi divenne tacito. Simili atteggiamenti e atrocità possono essere trasferiti alla situazione di questo medesimo tipo di guerra in Messico, Centroamerica e altri luoghi, di modo che non dobbiamo perdere la prospettiva storica della regione, spesso ignorata nel contesto della “guerra del narco”.

La nostra interpretazione della cosiddetta insurrezione non politica in Messico e la risposta dello stato ci aiuta a comprendere completamente il progetto della guerra contro le droghe, così come possibili strategie repressive in futuro in altre parti del mondo. Pensiamo, per esempio, alla recente offensiva del Dipartimento di Stato statunitense per promuovere un ambito ideologico nel quale trasferire la guerra contro le droghe all’Africa occidentale, assicurando che “il crimine organizzato internazionale, incluso il traffico di droghe, è una grande minaccia per la sicurezza e i governi dell’Africa occidentale”.[20] Promuovendo in Africa e in altri luoghi queste idee si aprono nuove possibilità per le agenzie statunitensi per giustificare le necessità del loro intervento, così come succede in Messico.

Una delle idee errate più diffuse sulla guerra in Messico, e in modo più generale sulla “guerra del narco”, è che si tratti di un fatto post politico o non politico. È ingenuo attribuire uno status “politico” ad una guerra unicamente quando c’è un movimento nazionale di liberazione o un conflitto guerrigliero. La guerra in Messico è politica: è una controrivoluzione, cento anni dopo. Sta decimando le comunità e distruggendo alcune delle conquiste della rivoluzione messicana che sono perdurate dopo la firma, nel 1994, del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord.

Per gente come Francisco Chavira, parlare contro la classe politica e i suo legami con i gruppi criminali continuerà ad essere una attività pericolosa. Per centinaia di migliaia che hanno perso i propri cari non cesserà la sofferenza generata da questa guerra, una guerra che va al di là delle droghe. In Messico, secondo Robinson, le autorità stanno avendo problemi nel combattere le contraddizioni prodotte dalle notevoli disuguaglianze e dal capitalismo globale. Le atrocità, la paura e il terrore della guerra del narco rappresentano la risposta dello stato del XXI secolo di fronte a queste condizioni.

Note:

1 Paley, Dawn. “Off the Map in Mexico”. 4 maggio 2011. The Nation. Informazione esaminata il 12 dicembre 2012 da: http://www.thenation.com/article/160436/map-mexico

2 Paley, Dawn. “Insight Crime y la mexicanización del discurso sobre la guerra entre cárteles”. 11 marzo 2013. Informazione esaminata il 14 marzo 2013 da: http://dawnpaley.tumblr.com/post/45119662682/insight-crime-the-mexicanization-of-cartel-war

3 Paley, Dawn. “El capitalismo narco”. Julio/ agosto de 2012. Solidarity. Informazione esaminata il 12 febbraio 2013 in: http://www.solidarity-us.org/node/3652

4 “State Repressive Apparatus”, tras “Sangre y capital: La paramilitarización de Colombia”, di Jasmin Hristov. Between the Lines, 2009: Toronto.

5 Khalili, L. “The Location of Palestine in Global Counterinsurgencies”. Int. J. Middle East Stud. 42 (2010), 413–414.

6 Consolato di Monterrey. “Mexico: Tracking Narco-grenades”. 3 marzo de 2009. Informazione esaminata il 20 dicembre 2012 in: http://cablegatesearch.net/cable.php?id=09MONTERREY100#para-3961-4

7 “Era un antico kaibil (membro delle forze speciali guatemalteche) l’accusato di aver ordinato l’azione più violenta mai vissuta in Guatemala legata al traffico di droga. Hugo Gómez Vásquez fu accusato di sovrintendere al massacro nella Finca Los Cocos, nel dipartimento di Petén, nel maggio del 2011, dove 27 lavoratori furono assassinati, probabilmente come parte di un conflitto per le terre tra Otto Salguero, un proprietario terriero locale, e gli Zeta”. Consultare: Paley, Dawn. “Estrategias de una nueva guerra fría”. Towards Freedom. Informazione esaminata il 14 febbraio 2013 da: http://www.towardfreedom.com/home/americas/3073-strategies-of-a-new-cold-war-us-marines-and-the-drug-war-in-guatemala

8 Linebaugh, P., Rediker, M. “The Many-Headed Hydra: Sailors, Slaves, Commoners, and the Hidden History of the Revolutionary Atlantic.” Beacon Press, Boston, 2000. Pp. 53.

9 Il quotidiano LA Times ha pubblicato un buon riassunto di alcune delle azioni più crudeli dei sei anni di Calderón al potere. Hernández, D. “Calderon’s war on drug cartels: A legacy of blood and tragedy”. 1 dicembre 2012. LA Times. Informazione esaminata il 20 dicembre 2012 da: http://www.latimes.com/news/world/worldnow/la-fg-wn-mexico-calderon-cartels-20121130,0,1538375,full.story

10 Editors. “Mexico’s disappeared.” 5 marzo 2013. LA Times. Informazione esaminata il 14 marzo 2013 da: http://articles.latimes.com/2013/mar/05/opinion/la-ed-disappeared-mexico-human-rights-watch-20130305

11 Gomis, R. Romillo, M., Rodríguez, I. “Reflexiones sobre la política del terror: El caso de Guatemala.” Cuadernos de Nuestra América. Vol 1. 1983. La Habana. Citato in: Equipo de Antropologia Forense de Guatemala. Las Masacres en Rabinal: Estudio Histórico Antropológico de las masacres de Plan de Sánchez, Chichipate y Río Negro, 1997. 2ª edición. 1997. Guatemala. P. 154.

12 BBC News. “Clinton says Mexico drug crime like an insurgency.” 9 settembre 2010. Informazione esaminata il 14 febbraio 2012 da: http://www.bbc.co.uk/news/world-us-canada-11234058

13 Morgan, David. “US military chief backs counter-insurgency for Mexico.” 6 marzo 2009. Informazione esaminata il 14 febbraio 2013 da: http://www.reuters.com/article/2009/03/07/idUSN06397194

14 Corcoran, P. “Counterinsurgency is not the Answer for Mexico.” 26 settembre 2011. Informazione esaminata il 14 febbraio 2013 da: http://www.insightcrime.org/news-analysis/counterinsurgency-is-not-the-answer-for-mexico

15 Paley, Dawn. “El capitalismo narco” julio/agosto de 2012. Solidarity. Informazione esaminata il 12 febbraio 2013 da: http://www.solidarity-us.org/node/3652

16 Hristov, J. Blood and Capital: The Paramilitarization of Colombia. Between the Lines, 2009: Toronto.

17 Ibáñez, A., Vélez, C. “Civil Conict and Forced Migration: The Micro Determinants and Welfare Losses of Displacement in Colombia.” World Development, Vol. 36, No. 4, 2008. pp. 661.

18 Equipo de Antropología Forense de Guatemala. Las Masacres en Rabinal: Estudio Historico Antropológico de las masacres de Plan de Sánchez, Chichipate y Rio Negro, 1997. 2ª edición. 1997. Guatemala. P. 335.

19 Williams, K. “Introduction: Insurgency, Counterinsurgency, and Whatever Comes Next.” En Williams, K., Munger, W., Messersmith-Glavin, L. Eds. Life During Wartime: Resisting Counterinsurgency. p. 12. AK Press, 2013.

20 Office of the Spokesperson. “The Bureau of International Narcotics and Law Enforcement and the Woodrow Wilson Center Host a Panel Discussion on “Combating Narcotics Trafficking in West Africa.” 25 ottobre 2012. Informazione esaminata il 15 marzo 2013 da: http://www.state.gov/r/pa/prs/ps/2012/10/199730.htm

*Dawn Marie Paley è una giornalista di Vancouver (Territori Coast Salish), Canada. Sta terminando il suo primo libro, che tratta dei legami tra l’espansione capitalista e la politica anti-narco, e che uscirà con l’AK Press a ottobre 2014. Si può visitare la sua pagina qui : dawnpaley.ca o seguirla in Twitter @dawn_.

Tradotto da Nicolás Olucha Sánchez. Originariamente pubblicato da Occupied London, ottobre 2013.

12-01-2014

SubVersiones

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Dawn Marie Paley, “Recuerdos represivos: terror, insurgencia y la guerra del narco pubblicato il 12-01-2014 in SubVersiones, su [http://subversiones.org/archivos/18421] ultimo accesso 03-02-2014.

 

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