Compagn@:
Quasi 20 anni fa, ci svegliammo con la notizia che gli indigeni maya dello stato del Chiapas si erano sollevati in armi contro il malgoverno dell’ineffabile Carlos Salinas de Gortari. A partire da lì, grandi mobilitazioni ed un dialogo non sempre facile si è sviluppato con l’Esercito Zapatista da Liberazione Nazionale.
In maniera fondamentale, una nuova generazione uscì allora per le strade e si identificò con la ribellione zapatista. Furono loro a contrassegnare una buona parte delle mobilitazioni che si realizzarono in quella prima fase della lotta zapatista.
L’insurrezione zapatista del 1° gennaio aveva scosso la coscienza nazionale. Infatti, come disse José Emilio Pacheco: “Abbiamo chiuso gli occhi pensando che l’altro Messico sarebbe sparito se non l’avessimo guardato. Il primo gennaio del 1994 ci siamo svegliati in un altro paese. Il giorno in cui avremmo festeggiato il nostro ingresso nel primo mondo siamo tornati indietro di un secolo fino a trovarci di nuovo di fronte ad una ribellione come quella di Tomochic. Credevamo e volevamo essere nordamericani e ci ha travolto il nostro destino centroamericano. Il sangue versato chiede di porre fine al massacro. Non si può fermare la violenza dei ribelli, se non si ferma la violenza degli oppressori” (José Emilio Pacheco, La Jornada, 5 gennaio).
La sinistra messicana e mondiale in quel momento era in un apparente vicolo cieco. L’11 novembre 1989 cominciarono a cadere, come birilli, le cosiddette “democrazie popolari” (Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Polonia, Romania, Albania). Nel 1991 l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si “dissolse” e, al di là di quello che ognuno di noi pensava di quel processo, quello che non si può negare è che, in pratica, il suo crollo fece strada all’arrivo di un capitalismo selvaggio guidato dalla mafia criminale.
In America Latina il 25 febbraio del 1990, i sandinisti perdono le elezioni ed inizia non solo il processo di esproprio contro i contadini nicaraguensi e la fine del cooperativismo, ma si sviluppa anche una dinamica di corruzione tra i dirigenti sandinisti. Non avrei mai pensato che uno dei fondatori del sandinismo e figura emblematica della rivoluzione, Tomás Borge, avrebbe realizzato un libro-lode-libello – mascherato da intervista a Carlos Salinas de Gortari – intitolato “Dilemmi della modernità”.
Il 16 gennaio 1992 si firmano gli accordi di Chapultepec che mettono fine alla guerra in Salvador, senza che una serie di richieste centrali del popolo siano state accolte, in particolare, il diritto alla terra. In mezzo a questo processo, il signor Joaquín Villalobos (“dirigente” del FMLN), che già aveva sulle spalle la terribile decisione di uccidere il grande poeta Roque Dalton, consegna il suo AK-47 a Carlos Salinas de Gortari.
Dopo questo, si cercò di riportare tutto nell’ambito istituzionale della democrazia rappresentativa. Tutti promuovevano una sinistra che si limitasse ad essere il cliente impertinente dello Stato capitalista.
In mezzo all’euforia anticomunista e ai discorsi in cui si proclamava la fine della storia e l’arrivo di un nuovo ordine mondiale, qualcuno descrisse bene l’epoca in cui vivevamo e fece un’affermazione che diede senso alla nostra stoltezza: Eduardo Galeano, che scrisse un testo memorabile: “A Bucarest, una gru si porta via la statua di Lenin. A Mosca, una folla avida fa la coda da McDonald’s. L’abominevole muro di Berlino si vende a pezzi, e Berlino Est conferma che si trova a destra di Berlino Ovest. A Varsavia e a Budapest, i ministri economici parlano come Margaret Thatcher. A Pechino pure, mentre i carri armati schiacciano gli studenti. Il Partito Comunista Italiano, il più importante in Occidente, annuncia il suo prossimo suicidio. Si riducono gli aiuti sovietici all’Etiopia ed il colonnello Mengistu scopre improvvisamente che il capitalismo è buono. I sandinisti, protagonisti della rivoluzione più bella del mondo, perdono le elezioni: Cade la rivoluzione in Nicaragua, titolano i giornali. Sembra non esserci più posto per le rivoluzioni, se non nelle vetrine del Museo Archeologico, né c’è posto per la sinistra, salvo per la sinistra pentita che accetta di sedersi alla destra dei banchieri. Siamo tutti invitati al funerale mondiale del socialismo. Il corteo funebre include, come dicono, l’umanità intera.
Confesso di non crederci. Questi funerali hanno confuso il morto”.
(Eduardo Galeano: El niño perdido a la intemperie).
L’insurrezione zapatista del 1° gennaio aprì un nuovo ciclo di confronti sociali. La capacità di trasmettere il loro messaggio, che era ed è quello dei condannati della terra, aprì una breccia per ri-percorrere la strada nella ricerca di una pratica emancipatrice.
Il pensiero libertario zapatista aprì un grande buco nell’edificio ideologico apparentemente solido del potere del capitale, e permise che da lì si esprimessero vecchie buone idee e nuove buone idee.
Tra l’euforia della classe dominante; mentre si levavano coppe di champagne per brindare al nostro ingresso nel primo mondo (il 1° gennaio entrava in vigore il Trattato di Libero Commercio); quando il priismo era consolidato, mentre era riuscito a “scoprire” il suo candidato senza che si verificassero rilevanti spaccature al suo interno; quando le 15 famiglie più ricche del paese festeggiavano la capacità degli strumenti di controllo di dominare i “poveracci” (come era solito definire i poveri lo zar della televisione privata: Emilio Azcárraga Milmo); avvenne l’insurrezione dei popoli zapatisti. Scelsero questa data per dimostrare che la memoria non era stata sconfitta da una modernità escludente.
Né il governo ed i partiti di destra, né la sinistra o i settori democratici, avevano la minima idea che sarebbe successo qualcosa di simile. Sapevamo del rancore che covava, ma non pensavamo che avrebbe potuto esprimersi in questa maniera.
Incominciammo a cercare di capire. Ovviamente, non solo non sempre non capivamo esattamente l’insieme della nuova grammatica della ribellione zapatista, ma molte idee ci erano estranee e, molte volte, le fraintendevamo.
La cosa più importante è che il 1° gennaio fu una boccata d’aria fresca. Uscimmo per le strade non solo per chiedere al governo di fermare la guerra, ma per evidenziare che tutti i proclami alla fine della storia erano, prima di tutto, vuoti discorsi ideologici.
L’idea che NON tutto fosse perduto fu la chiave per comprendere che, alla fine, quella ribellione non era altro che una crepa attraverso cui potevamo vedere che c’erano ancora molte lotte da combattere. Che la storia non solo non era finita, ma era, ancora, una-molte pagine in bianco.
Ora possiamo aggiungere che, per noi, l’insurrezione zapatista non è un’effemeride, un evento che corre il pericolo di essere inghiottito dal carattere onnivoro del capitalismo. Che, nonostante i tentativi dei mezzi di comunicazione, lo zapatismo non fa parte della società dello spettacolo.
Lo zapatismo è stato un processo effettivamente ricco di molti brillanti momenti, ma prima di tutto, è stato un processo ininterrotto di lotte, azioni, esperienze che, concatenate tra loro, hanno costituito una nuova pratica della sinistra del basso.
Dunque, nonostante le volte che commentatori ed analisti – che confondono la loro illusione con la realtà – hanno dato per morto lo zapatismo, questo non solo è andato avanti ma ha continuato a generare nuovi processi sociali.
All’interno, con lo sviluppo dell’autonomia (autentico processo di auto-organizzazione senza paralleli nella storia, per lo meno in maniera tanto profonda e prolungata) e la costruzione di nuove relazioni sociali, cioè, di nuove forme di vita. E verso l’esterno, non cercando di egemonizzare od omogeneizzare né dirigere altri movimenti sociali.
Collocandosi sempre al fianco dei perseguitati, vilipesi e offesi, in particolare, dei più perseguitati, più vilipesi e più offesi.
Non in funzione della difesa in astratto della patria o della nazione, bensì in funzione degli esseri umani che, vivendo in basso ed ancora più in basso, sono considerati prescindibili o semplice carne da cannone che non merita nient’altro che seguire sempre i suoi dirigenti sempre pronti a dire loro quando alzare la mano. Quegli esseri umani che sono l’essenza fondamentale della patria o della nazione.
Se qualcuno domandasse ad uno zapatista: Quali sono stati i tuoi anni migliori? Lui risponderebbe: “Quelli che verranno”. Perché alcune delle cose più importanti che ci ha dimostrato lo zapatismo, è la sua permanente volontà di lotta, la sua capacità organizzativa e la sua convinzione – a prova di tutto, perfino dell’incomprensione di molt@ – che vinceremo.
Se la ribellione zapatista – della quale vogliamo essere complici – non è una data, né un compleanno, né un avvenimento, né qualcosa di pietrificato, dogmatico o finito, allora, è qualcosa che si prepara, si costruisce, si consolida ogni i giorno.
Se altri vogliono darsi per sconfitti perché ritengono che ormai si è persa “la madre di tutte le battaglie”, è un suo diritto. Noi preferiamo la visione che, come dicevano gli studenti francesi del maggio 1968: “questo non è che l’inizio, la lotta continua”.
Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1° gennaio 1994. E molti gli attacchi dei signori del denaro, della classe politica e dei suoi palafrenieri, “intellettuali” da strapazzo che fin dal primo giorno furono ingaggiati per una missione impossibile: denigrare con una certa credibilità i popoli zapatisti e il suo esercito. Le penne in divisa si offrirono al miglior offerente, dal libello Nexos fino a quello che oggi è il suo specchio: il quotidiano La Razón. Tutti loro hanno accolto diversi legulei disposti a mostrarsi per quello che sono: mercenari che scrivono con la mano destra e riscuotono con la sinistra.
L’impulso vitale che veniva dal basso fu ascoltato e compreso solo da una parte della sinistra messicana. Quella che non soffre di torcicollo a forza di tenere la testa sempre rivolta a guardare in alto, ad aspirare ad un potere che – benché nessuno di loro se ne sia accorto – non esiste più, è un ologramma.
Da parte nostra, quelli che mantenevamo il progetto ribelle dell’Altra Sinistra, decidemmo, con l’aiuto dell’esempio dei popoli zapatisti, di restare in basso e a sinistra. Ostinati nel costruire un’altra realtà, dove i meccanismi comunitari di auto-organizzazione siano il motore delle trasformazioni pratiche e teoriche. Al fianco di chi vive nelle cantine e ai piani bassi del palazzo capitalista.
Per realizzare questa costruzione fu necessario essere dispost@ a ri-apprendere molte cose, come vedremo più avanti.
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In questo processo nel quale “l’educatore deve essere educato”, riapprendere è stato fondamentale.
Naturalmente, la strada non è stata facile. Molti paradigmi teorici del pensiero di sinistra sono stati messi in discussione:
a) L’idea di un’avanguardia che guida dall’esterno il movimento sociale.
b) L’idea che la teoria è ad esclusiva dei pensatori universitari.
c) L’idea che la classe operaia sia l’unica classe rivoluzionaria.
d) L’idea che l’importante nel concetto di lotta di classe, sia il secondo elemento e non il primo.
e) L’idea che la diversità e le differenze siano un ostacolo per lottare insieme.
f) L’idea che lo Stato è l’unico strumento utile per cambiare in maniera duratura le condizioni di vita e l’organizzazione sociale del popolo.
g) L’idea che lottiamo per una rivoluzione socialista alla quale si deve firmare un assegno in bianco, lasciando da parte le cosiddette lotte minoritarie (indigene, donne, omosessuali, lesbiche, altri amori, punk, eccetera).
h) L’idea della sinistra – che ha un pensiero unico – che chi non rientra nella sua visione è un nemico.
Di fronte a questa crisi di paradigmi abbiamo cominciato a costruire un pensiero molto Altro. La prima cosa è stata rompere con la convinzione che la politica sia un compito che possono svolgere solo gli specialisti. Che si tratta di un discorso pieno di arcani segreti non adatto alla popolazione in generale.
Un po’ alla volta abbiamo scoperto che esiste un’altra teoria: quella che nasce in seno ai movimenti veri, quelli che non sono rondini che non fanno primavera. Che è lì nelle comunità, nei quartieri, negli ejidos, nei villaggi, dove la gente comincia a riflettere sul significato di prendere in mano il controllo dei propri destini e, a partire da lì, elaborare una teoria prodotta da sé stessi.
Quell’irruzione dei “pedoni della storia”, come dicono i compagni zapatisti, ha messo in crisi più d’uno di quelli che si considerano possessori del pensiero politico, che hanno le “risposte” a tutto quello che accade nel mondo, che è il prodotto di una lettura profonda… dei giornali. Naturalmente, come sempre succede, nessun popolo presta loro attenzione.
Le ed i clandestini della politica, quelli che non hanno ruoli né titoli universitari sono quelli che, già da molti anni, stanno facendo la vera teoria politica.
La grande domanda a coloro che si ritengono organizzazioni d’avanguardia e a coloro che si considerano “creatori di opinione” è sapere se hanno la modestia di ascoltare queste voci. Se sono capaci di abbassare il volume del frastuono che producono le loro teorie quasi sempre prodotto di piani analogici validi per qualunque momento della storia, cioè, per nessuno.
Si impara ad ascoltare solo quando si tace. Sarà possibile che dopo tanti anni di parlare, la sinistra abbia la capacità di tacere ed ascoltare? Le voci che vengono dal basso, anche se di pochi decibel, sono chiare e nitide. È solo questione di abbassarsi un po’ e prestare attenzione.
Ed allora, ci accorgeremo che dal profondo della società messicana, come un fiume, stanno sgorgando un tale livello di idee e pensieri come quelli che oggi vediamo nella Escuelita Zapatista. Se aguzziamo l’udito per guardare dovremo riconoscere che sì, è vero, le nuove generazioni di zapatisti sono molto più lucide e capaci di quelle che fecero l’insurrezione. Le molteplici voci delle basi di appoggio zapatiste ci confermano che, nonostante l’importante sforzo del suo capo militare e portavoce, lui è riuscito a trasmetterci solo un pallido riflesso di quello che stava accadendo in territorio zapatista.
La ricchezza di questa esperienza ci ha fornito nuovi strumenti pratici e teorici. È nostra responsabilità che il loro uso sia fruttifero. Sappiamo che non è stato facile, e siamo lontani dal successo, ma ci stiamo provando, davvero ci stiamo provando. Ed oggi possiamo dire che siamo qua.
Che non ci arrendiamo, che non ci vendiamo, che non rinneghiamo. Che, senza dubbio, ci siamo sbagliati, ma siamo riusciti a preservare il fuoco e separare la cenere. Che questo fuoco oggi è solo una fiamma, o meglio, una fiammella, ma che tutti i giorni è alimentato da due cose: le azioni distruttive del potere neoliberale escludente e rapace che ci obbliga a mantenerci nell’imperativo categorico di eliminarlo, e la volontà incrollabile di quello che siamo.
Ogni giorno con la nostra pratica e pensiero vegliamo su questa fiamma o fiammella che rappresenta la nostra volontà di lottare contro lo sfruttamento, la spoliazione, la repressione ed il disprezzo, cioè, contro l’essenza del capitalismo.
Facciamo nostre le seguenti parole che voi avete pronunciato al festival della Digna Rabia:
“Permettetemi di raccontarvi questo: L’EZLN ebbe la tentazione dell’egemonia e dell’omogeneità. Non solo dopo l’insurrezione, anche prima. Ci fu la tentazione di imporre modi e identità. Che lo zapatismo fosse l’unica verità. Ed in primo luogo furono le comunità ad impedirlo, e poi ci insegnarono che non è così, che non si fa così. Che non potevamo sostituire un dominio con altro e che dovevamo convincere e non vincere chi era ed è come noi ma non è noi. Ci insegnarono che ci sono molti mondi e che è possibile e necessario il mutuo rispetto…
“Quello che vogliamo dirvi, è che questa pluralità tanto uguale nella rabbia e tanto diversa nel sentirla, è la direzione e il destino che noi vogliamo e vi proponiamo…
“Non tutti sono zapatisti (cosa di cui in alcuni casi ci rallegriamo). Non siamo nemmeno tutti comunisti, socialisti, anarchici, libertari, punk, ska, dark e come ognuno chiami la propria differenza …”
(Stralci del discorso del Subcomandante Insurgente Marcos: “Sette venti nei calendari e geografie del basso”).
Questa concezione ci sollecita a continuare a formulare una risposta. Di seguito daremo alcune idee che vogliono essere solo una riflessione iniziale.
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“Nella Sesta non diciamo che tutti i popoli indios entrino nell’EZLN, né diciamo che guideremo operai, studenti, contadini, giovani, donne, altri, altre. Diciamo che ognuno ha il suo spazio, la sua storia, la sua lotta, il suo sogno, la sua proporzionalità. E diciamo di stringere un patto per lottare insieme per il tutto e per ognuno. Fare un patto tra la nostra rispettiva proporzionalità ed il paese che ne risulti, che il mondo che nasca sia formato dai sogni di tutti e di ogni diseredato.
“Che quel mondo sia così variopinto che non ci siano gli incubi che assillano chi sta in basso.
“Ci preoccupa che in quel mondo partorito da tanta lotta e tanta rabbia, si continui a considerare la donna con tutte le varianti del disprezzo che la società patriarcale ha imposto; che si continuino a considerare stranezze o malattie le diverse preferenze sessuali; che si continui a presumere che i giovani devono essere addomesticati, cioè, obbligati a “maturare”; che noi indigeni continuiamo ad essere disprezzati e umiliati o, nel migliore dei casi, considerati come i buoni selvaggi che bisogna civilizzare.
“Ci preoccupa che quel nuovo mondo non sia un clone di quello attuale, o un transgenico o una fotocopia di quello che oggi ci inorridisce e ripudiamo. Ci preoccupa, dunque, che in quel mondo non ci sia democrazia, né giustizia, né libertà.
“Allora vogliamo dirvi, chiedere, di non fare della nostra forza una debolezza. L’essere tanti e tanto differenti ci permetterà di sopravvivere alla catastrofe che si avvicina, e ci permetterà di costruire qualcosa di nuovo. Vogliamo dirvi, chiedervi, che quel nuovo sia anche differente”.
(Stralci del discorso del Subcomandante Insurgente Marcos: “Sette venti nei calendari e geografie del basso”).
Che cosa scriveremmo se oggi avessimo la pretesa di dire che cosa ci dimostra l’esperienza zapatista?
Ogni volta che un uomo, una donna, un bambino o un anziano basi di appoggio zapatista parla della sua lotta, della sua autonomia, della sua resistenza, c’è una parola che si ripete con insistenza: organizzazione. Ma come arrivarci? Il problema non si risolve utilizzando la parola come una specie di “apriti sesamo” buona per tutto.
Nemmeno si può semplicemente portare a modello quello che loro stessi ci dicono non essere un modello. Loro l’hanno fatto così, ma ci saranno altri modi.
Se respingiamo il pensiero unico della destra, è impossibile pensare ora di introdurre una specie di pensiero unico della sinistra del basso.
No, si tratta invece di imparare dalle esperienze quotidiane che viviamo. E queste esperienze benché simili non saranno uguali. Ma, ci sarebbe qualcosa che ci permetta di orientarci in questo tortuoso cammino?
Sì, molte cose, per lo meno è quello che pensiamo noi.
a) Metterci sempre al fianco dei condannati della terra.
b) Non guardare in alto, ma nemmeno in basso. Cercare sempre di lanciare sguardi di complicità ai lati, cioè dove apparteniamo, in basso.
c) Privilegiare l’ascolto al discorso. Dare l’opportunità che chi sta in basso parli e ci dica quello che sa.
d) Capire che è inevitabile che dal potere e dai suoi media arrivino linciaggi contro quegli altr@ che stonano, che non si inquadrano né quadrano: contro i ribelli.
e) Sfuggire alla tentazione di guidare i movimenti. Questo provoca sempre una vertigine. Sorge sempre la domanda di come si esprimeranno quelli che lottano, la popolazione che vive in basso, se non c’è chi li guidi. Perché la risposta, molto semplice, comporta una grande complessità accettarla: da loro stessi.
f) Rispettare le forme organizzative che ognuno si dà, benché ci sembrino tortuose e disperatamente lente. Ognuno a modo suo.
g) Non perseguire le congiunture che ci impongono dall’alto, bensì lavorare per creare le nostre proprie congiunture. Muovere le tavole della politica vuol dire non rispettare le regole del “politicamente corretto”. Aspiriamo ad essere “politicamente scorretti”.
h) Lavorare e costruire nella differenza. Generando spazi abitabili dove le donne non siano vessate per il semplice fatto di essere donne. Dove si accettino le diverse preferenze sessuali. Dove non si imponga una religione ma neanche l’ateismo. Dove si promuova l’incontro dei diversi, degli altr@.
i) Dove non ci auto-limitiamo perché la polis è molto più complessa della selva. Molti hanno detto che gli zapatisti possono fare ciò che fanno perché la loro società non è complessa. Che nelle grandi città viviamo in una società complessa che impedisce la possibilità che le persone prendano il controllo del proprio destino. Questo è stato teorizzato sia dalla destra che dalla sinistra. Questo “argomento” contiene due stupidaggini: pensare che i popoli zapatisti formino una società semplice. Chi dice questo non è mai stato in territorio zapatista, dove quasi ogni compagn@ è un municipio autonomo. Semplicemente bisogna ricordare che in una Giunta di Buon Governo convivono compagn@ che parlano fino a quattro lingue differenti. L’altra stupidaggine è sottovalutare i popoli delle grandi città ed espropriarli della capacità di decisione per un problema tecnico: la difficoltà di comunicazione. Dico, questi stessi sono quelli che cantano le glorie di Internet e delle reti sociali.
Infine, queste sono solo alcune idee. Non tutte, e molto probabilmente neanche le migliori.
La questione è che come dice qualcuno: la storia ci morde il collo, dobbiamo voltarci e mordere il collo alla storia. Chiaro, tutto questo fatto con grande serenità e pazienza.
In questo processo sorgeranno molte esperienze dalle quali apprendere. Qui sì “fioriranno cento fiori” che rappresentino cento o più forme di organizzazione diverse. Non ci sono altri limiti se non quelli che ci imponiamo noi stessi.
Nelle parole che ricordiamo de@ compagn@ dell’EZLN durante il festival della Digna Rabia, si trova la cosa fondamentale di quella che sarebbe la buona notizia: Sì, è vero, il popolo unito non sarà mai vinto, ma a patto che sarà sempre nella diversità che si costruisca il grande Noi che questo paese ed il mondo necessita.
Da parte nostra, infine, vogliamo dire che dal 1° gennaio del 1994 abbiamo deciso che il nostro futuro è al fianco dei nostri fratelli e sorelle e compagn@ zapatisti. Che non siamo stati di quelli che hanno voluto semplicemente farsi fare una foto nel momento in cui i mezzi di comunicazione, e quelli che seguono sempre la moda, spiavano i dirigenti zapatisti, in particolare il Subcomandante Insurgente Marcos.
Ed oggi, quasi 20 anni dopo la grande insurrezione e 20 anni dopo da quando abbiamo saputo che la vostra ribellione è anche la nostra, compagn@ zapatisti vi diciamo: siamo qua, qua seguiremo, cercando di camminare con voi, spalla a spalla, come parte della Sexta. Vi diciamo che, effettivamente, anche noi abbiamo un obiettivo molto modesto: cambiare la vita, cambiare il mondo.
Per tutto quanto detto sopra e per molte altre ragioni e non, un gruppo di uomini, donne, bambin@, anzian@, altr@, abbiamo deciso di organizzarci, perché abbiamo capito che la ribellione organizzata è una delle strade, per noi la più importante, che ci porterà dove vogliamo andare.
Non a costruire una strada unica e senza ostacoli, bensì una strada dove incontriamo molt@ altr@ e possiamo lavorare insieme senza che questo significhi dire loro: “venite di qua, questo è bene”. Perché dopo venti anni stiamo imparando che le strade si fanno camminando, nell’azione e non in dibattiti teorici senza radici pratiche.
Dalle visioni zapatiste del mondo, del Messico e della vita, vogliamo generare una cornice comune, un rifugio abitabile alla nostra ribellione, una casamatta che sia un punto di appoggio per continuare col nostro lavoro di vecchia talpa (o meglio: di scarabeo chiamato Don Durito de la Lacandona) che corrode le fondamenta del capitale.
Per questo, noi, ribelli ed insubordinati, esprimiamo la volontà di camminare insieme agli zapatisti ed il desiderio di essere vostri compagn@. Vi diciamo che ce la metteremo tutta e che, effettivamente, nella lunga notte che è stato quello che qualcuno chiama giorno, prima o poi “la notte sarà il giorno che sarà il giorno”.
Fuori non è più notte… già si vede l’orizzonte.
Messico, dicembre 2013
(Traduzione “Maribel” – Bergamo)
da Nodo Solidale
http://www.autistici.org/nodosolidale/news_det.php?id=2257
Traduzione di “Maribel” – Bergamo: |
Sergio Rodríguez Lascano, “Carta a nuestr@s compañer@s del EZLN, de Sergio Rodríguez Lascano” pubblicato il 31-12-2013 in Enlance Zapatista, su [http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2013/12/20/carta-a-nuestrs-companers-del-ejercito-zapatista-de-liberacion-nacional/] ultimo accesso 07-01-2014. |