Carlos Eduardo Martins
Il movimento che è esploso nelle strade ha l’opportunità di risorgere con la coppa mondiale di calcio e con le congiunture finanziarie, ma si trova di fronte alla mancanza di una strategia definita e alla discussione della sinistra e della destra per la sua forza.
Río de Janeiro, Brasile. Le proteste iniziate a giugno del 2013, chiamate dalla stampa internazionale “Primavera Brasiliana”, la loro diffusione nei centri urbani e nelle regioni metropolitane e i loro metodi –molte volte violenti e insurrezionali–, denotano una profonda crisi del sistema politico brasiliano.
La crisi ha come punto di partenza l’esaurimento del progetto neoliberista in Brasile, che ha stabilito la sua egemonia tra la società brasiliana dopo il breve periodo di Fernando Collor de Mello (1990-1992), durante i governi di Itamar Franco (1992-1994) e Fernando Henrique Cardoso (1995-2002), a partire dall’applicazione dei programmi del consenso di Washington, con l’avvio, negli anni ottanta, dell’apertura commerciale e finanziaria e la supervalutazione della moneta in cambio della rinegoziazione del debito estero.
La crisi mondiale del 1998, con l’epicentro in Asia, favorì la fuga di capitali dall’America Latina, che tagliò il finanziamento estero delle esperienze neoliberiste e rese manifesta tanto la vulnerabilità finanziaria degli stati che avevano adottato queste formule come il suo alto costo sociale – che si percepì con l’alienazione del patrimonio pubblico e della sovranità nazionale, con l’arricchimento privato, con la corruzione e l’elevato livello di indebitamento statale al servizio di oligarchie finanziarie, con la perdita di diritti sociali e lavorativi, così come con gli alti livelli di disoccupazione e deindustrializzazione.
Il rifiuto verso i gruppi politici che avevano diretto questi processi in America Latina fu profondo e aprì lo spazio all’avanzata delle sinistre –principalmente nell’America del Sud–, iniziando nel 1998 con l’elezione di Hugo Chávez alla presidenza del Venezuela. Politicamente, le sinistre si divisero tra una nazionalista e integrazionista –affermatasi con Hugo Chávez e Nicolás Maduro in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, Néstor e Cristina Kirchner in Argentina–, e progetti centristi e moderati come quelli di Luis Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff in Brasile, Michele Bachelet in Cile, Tabaré Vásquez e José Mújica in Uruguay e Fernando Lugo in Paraguay.
Nonostante il profondo rifiuto sociale dei “tucani” (soprannome dei sostenitori del Partito Sociale Democratico del Brasile, PSDB, dal quale proviene l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso) e dei suoi alleati, il progetto di stato del Partito dei Lavoratori (PT) ha cercato di formulare una versione sociale del neoliberismo come base di un grande consenso nazionale. Si è proposto di dirigere con la mano sinistra un blocco storico che riunisse il grande capitale straniero e nazionale, l’oligarchia finanziaria, l’agronegozio, il monopolio dei mezzi di comunicazione e i segmenti più impoveriti della classe lavoratrice.
Il progetto petista
La “Lettera ai brasiliani” è il primo documento che afferma l’intenzione di dirigere il blocco storico. Elaborata nel giugno del 2002, quando Lula già guidava i sondaggi elettorali, definì il tono conciliatorio e centrista del suo governo. La realizzazione di questo patto e la subordinazione del PT al governo federale lo hanno traformato in un partito strategico dell’ordine borghese, dipendente e finanziario, fatto che ha svuotato il campo da alternative all’interno del sistema politico dei partiti. Si è allontanato dalle sue bandiere tradizionali insieme ai movimenti sociali e ai sindacati, li ha moderati attraverso la cooptazione dei dirigenti e ha utilizzato per questo le risorse fornite dalla gestione di posti e bilanci dell’apparato dello stato. Da un’altra parte, ha aumentato il proprio legame con le chiese cristiane e quella cattolica per neutralizzare i conflitti con questi settori, e si è impegnato sui loro temi tradizionali – il PT ha evitato di proporre una legislazione favorevole all’aborto e all’unione tra persone dello stesso sesso.
I dirigenti petisti hanno cercato di consolidare l’egemonia del loro progetto politico quando hanno assegnato al capitale finanziario il nucleo duro della politica economica, hanno mantenuto intatto il monopolio dei mezzi di comunicazione, hannno cooptato i dirigenti dei movimenti sociali organizzati, si sono impegnati con le principali chiese brasiliane e per i settori più poveri della popolazione brasiliana hanno fatto una politica di entrate minime. È stata organizzata una base di sostegno molto superiore a quella della destra, a partire dal 1999 demoralizzata dalla crisi del neoliberismo e senza legami con i movimenti sociali.
La preferenza dell’alta borghesia e dei ceti superiori della classe media per il PSDB , il partito Democratico (DEM) e i suoi alleati non è stata sufficiente ad offrire una alternativa al progetto petista. Si è stabilita una specie di guerra fredda tra i governi Lula e Dilma e il grande capitale –che tiene unite le imprese a Globo come i loro principali portavoci–, ma la collaborazione si è sovrapposta ai conflitti, di intensità moderata.
Nonostante ciò, questo progetto ha presentato vari limiti: quando ha voluto trasformare i modo permanente una politica di emergenza, come quella delle entrate minime, nella principale politica di lotta alla povertà, si è creata una mobilità all’interno della povertà senza che fossero stati dati i meccanismi istituzionali per il suo sradicamento o per l’eliminazione della vulnerabilità sociale ed economica delle ampie maggioranze – che includono porzioni di settori medi. Questa vulnerabilità ha la sua causa nei bassi stipendi, nell’alto livello di precarietà del mercato del lavoro, nella cattiva qualità dei servizi pubblici e negli elevati costi delle abitazioni [i]. Il risultato è stato l’aumento della pressione per ottenere la garanzia dei diritti sociali stabiliti nella costituzione del 1988 e il suo ampliamento per includere il trasporto, oltre ad altri elementi che fanno parte di questi diritti, come salute, educazione, casa, sicurezza sociale e divertimenti.
Le pressioni sono diventate evidenti nelle proteste di giugno, che hanno portato milioni di persone nelle strade e la cui base principalmente è composta da studenti e lavoratori che vivono in famiglie con entrate globali fino a cinque salari minimi. Vengono da fuori dal grande consenso nazionale guidato dal PT, o dalla opposizione promossa dal suo rivale – la destra politico-partitica e dalle sue organizzazioni mediatiche e imprenditoriali di appoggio. Rappresentano una esplosione sociale senza la mediazione del sistema politico-istituzionale e mettono in questione la legittimità della democrazia rappresentativa. Nonostante la presenza di partiti di sinistra (Partito Socialismo e Libertà (PSOL), Partito Socialista dei Lavoratori Unificato (PSTU) e Partito Comunista Brasiliano (PCB), alleati del Movimento Pase Libre nell’organizzazione delle proteste per la revoca dell’aumento delle tariffe dei trasporti, che ha rappresentato l’esplosione di un insieme di manifestazioni, questi partiti non possiedono una rappresentanza istituzionale significativa nei parlamenti o nel potere esecutivo – non sono partiti di massa.
I movimenti di strada in pericolo
L’assenza di mediazione rende questi movimenti sociali così esplosivi come vulnerabili, giacché non possiedono una strategia di medio e lungo periodo. Distinte visioni si gettano su di essi. Una di queste è la socialista, che cerca di raccogliere il senso profondo delle proteste e di rifondare lo stato (attraverso la sua sprivatizzazione e l’obiettivo di garantire diritti sociali, la difesa della sovranità nazionale e la sostituzione del deficit di legittimità della democrazia rappresentativa con l’introduzione di meccanismi di democrazia diretta).
L’altra visione che si proietta sulle proteste è quella del capitalismo monopolista di stato, che cerca di rifondare il patto neoliberista aumentando il livello di controllo dei monopoli sullo stato. Questa viene confermata attraverso le grandi imprese dei mezzi di comunicazione come l’espressione più organizzata della società civile e portavoce della brasilianità, e dirige la sua offensiva soprattutto contro la sinistra neoliberista e contro il sistema politico dei partiti nel suo insieme. La sua opzione preferenziale, anche se non esclusiva, è per dirigenze politiche personalistiche, senza una rappresentanza partitica manifesta –come Marina Silva (del Partido Verde, PV) o Joaquim Barbosa (presidente del Supremo Tribunale Federale, senza partito)– per superare il deficit di coordinamento politico in un presidenzialismo di coalizione che organizzi queste dirigenze e il monopolio mediatico, con la governabilità garantita da un sicuro controllo sull’azione del parlamento e del potere giudiziario.
Una terza opzione che cerca di intercettare le proteste è quella fascista, che vuole alzare i livelli di violenza nelle strade per creare una situazione caotica che giustifichi un colpo di stato che elimini la sinistra centrista dalla direzione politica del paese.
Il neoliberismo sociale: i governi petisti e le loro politiche pubbliche
La principale caratteristica delle politiche pubbliche dei governi petisti di Lula e Dilma è stata di mantenere la finanziarizzazione dell’economia. Quasi la metà del bilancio pubblico continua ad essere impegnato nel pagamento di interessi e nell’ammortamento del debito pubblico. Mai è stato pagato tanto in valori assoluti. Sebbene la relazione tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo (PIL) è caduta leggermente dal 75 per cento al 64,4 per cento del PIL, tra la fine del governo di Cardoso e la fine del governo di Lula, è aumentata di nuovo al 67,4 per cento nel dicembre del 2012, durante il governo di Dilma. I tassi d’interesse sono rimasti al di sopra della crescita del PIL, e il peso rappresentato dagli interessi dal 2008 si è stabilizzato tra il cinque e il sei per cento del PIL –dopo essersi avvicinato nel 2003 ai due numeri–, fatto che ha reso inutili gli sforzi di contenimento delle spese per il personale per ottenere un saldo attivo primario e la riduzione significativa del debito pubblico. Le spese dello stato per il personale sono rimaste a livelli estremamente ridotti. Se il governo di Cardoso le ridusse dal 5,8 al 5,5 per cento del PIL, i governi di Lula e Dilma le hanno mantenute sotto il cinque per cento del PIL. Lo sforzo per limitare le spese nella funzione pubblica e la previdenza sociale ha portato il governo a sancire una riforma che ha ridotto i diritti dei servitori pubblici e ha imposto ai servitori inattivi un contributo sulla sicurezza sociale e sul limite di età. L’impegno sull’avanzo primario ha fatto sì che nel 2012 il governo di Dilma affrontasse con estrema inflessibilità una ondata di scioperi di funzionari pubblici – ha ridotto gli stipendi degli scioperanti e ha minacciato di proporre una nuova legge sugli scioperi per i servitori pubblici.
Nei governi di Lula e Dilma si è sviluppata la struttura giuridica per un ampio complesso di appalti dei servizi pubblici (impianti idroelettrici, ferrovie, strade, porti, aeroporti, stadi) che alienano il patrimonio pubblico e violano la sovranità nazionale. Se le royalties sul petrolio arrivano all’ 85 per cento della produzione in Venezuela e al 50 per cento in Bolivia –stati molto più deboli nella loro capacità di affrontare le pressioni del capitale internazionale–, in Brasile arrivano solo al 15 per cento. È stato costituito un fondo sociale la sui principale finalità è la stabilizzazione finanziaria dell’economia e non la spesa sociale.
Il discorso ufficiale contrasta con la mediocre realtà in cui si programma di investire in educazione 28 milioni di reales in 10 anni, che rappresenta lo 0,06 per cento del PIL, senza alcun collegamento con quanto richiesto dai movimenti studenteschi, che è un investimento del 10 per cento.
Il limite agli investimenti pubblici impedisce che lo stato brasiliano compia pienamente la propria funzione stabilita dalla costituzione del 1988: fornire diritti sociali, tra i quali l’educazione, la salute e la casa. Il 75 per cento dei brasiliani non ha accesso alle assicurazioni sanitarie private e dipendono dalla sanità pubblica; il 75 per centro delle immatricolazioni dell’insegnamento superiore sono nelle università private, di peggiore qualità e finanziate dallo stato attraverso borse di studio, a detrimento dell’espansione dell’università pubblica.
Nel caso specifico dei trasporti –motivazione iniziale delle proteste– tre fattori incidono negativamente sul loro uso da parte delle famiglie dei lavoratori: il prezzo, la loro pessima qualità e l’elevato tempo di trasferimento al lavoro, a causa della carenza di infrastrutture urbane e dell’allontanamento di migliaia di famiglie verso le periferie delle città, che riflette un processo di elitizzazione delle città e di offensiva immobiliare con il pretesto dei megaeventi sportivi (la Coppa delle Confederazioni e il Mondiale di Calcio). Soltanto il 40 per cento della popolazione economicamente attiva e il 24 per cento della popolazione in età attiva hanno il “buono trasporto”, che limita il prezzo pagato dal lavoratore per i trasporti al sei per cento del proprio salario. I prezzi dei trasporti pubblici sono al di sopra dei tassi di inflazione delle principali città brasiliane, portati avanti dalla privatizzazione dei servizi pubblici come la metro, i treni e le barche. Nel caso specifico della città di San Paolo, dal 1994 i prezzi della metro e degli autobus sono saliti del 430 per cento e del 540 per cento, contro il 332 per cento dell’inflazione.
Le politiche sociali si sono orientate a focalizzare e a lottare contro l’estrema povertà. Sono state basate sull’espansione delle politiche di entrate minime –in particolare il programma borsa-famiglia– e sull’aumento del salario minimo. Quali sono i loro risultati? Hanno favorito specialmente il settore che riceve entrate familiari fino a un quarto del salario minimo pro capite. Tra il 1998 e il 2008 si sono ridotte dal 20 al 10 per cento le famiglie che ricevono fino a un quarto del salario minimo. Nonostante ciò, i settori da mezzo salario minimo e fino al salario minimo si sono stabilizzati al 54,1 per cento.
Riassumendo, le politiche dei governi petisti non sono state generalmente dirette verso la lotta alla povertà, che colpisce ancora la maggioranza della popolazione brasiliana, in condizioni si supersfruttamento del lavoro. Questo è ancor più grave in funzione delle pressioni sociali che si sono create per l’aumento del valore della forza lavoro. Dagli anni novanta in Brasile i livelli di scolarità sono significativamente aumentati [ii], producendo nuove esigenze di consumo, di accesso ai servizi e ai diritti sociali, in particolare da parte della gioventù. Tra le richieste che si stanno imponendo c’è la democratizzazione e la maggiore partecipazione alla vita sociale e politica del paese. Con la diffusione della rivoluzione scientifico-tecnica e delle tecnologie della comunicazione sorge una nuova generazione e un nuovo profilo della forza lavoro, che si organizza verso la socializzazione della conoscenza, dell’informazione e verso lo sviluppo della soggettività.
Le nuove richieste, lontano dalle vecchie proposte
L’uso delle vecchie forme parlamentari liberali di egemonia, l’abbandono della riforma politica e di un progetto di democratizzazione dei mezzi di comunicazione, così come l’approssimarsi di richieste culturali conservatrici non hanno permesso un rinnovamento dell’ambiente istituzionale, lo collega alle nuove richieste e all’immaginario sociale in formazione.
Il finanziamento privato delle campagne (elettorali, ndt) si è negli ultimi dieci anni moltiplicato, ha corrotto, ha accelerato la privatizzazione della vita pubblica e ha accentuato il legame della rappresentanza parlamentare con il potere economico e le oligarchie. La crescente presenza dei giovani in internet non ha trovato, da parte del governo, nessuna iniziativa per democratizzare i mezzi di comunicazione di massa e dare impulso alla creazione di reti di televisioni comunitarie o pubbliche non statali. I giganteschi cortei degli omosessuali non hanno trovato nessuna iniziativa che gli garantisca la piena cittadinanza civile e nemmeno i movimenti femministi hanno conquistato il diritto all’aborto.
L’alleanza con l’agronegozio, pilastro delle bilance commerciali e di un modello esportatore di prodotti primari sempre più intensivo, ha aumentato la crescita di conflitti sociali che coinvolgono i popoli indigeni, particolarmente quelli in relazione con la lentezza nella demarcazione dei loro territori. La revisione della legge di amnistia ha fracassato per la decisione del governo di percorrere i cammini istituzionali del liberismo brasiliano –che la ha bloccata nel Supremo Tribunale Federale (STF)– e di rifiutare una risposta pubblica e le mobilitazioni popolari attraverso il plebiscito.
Le politiche di entrate minime non hanno significativamente colpito la concentrazione delle entrate nella società brasiliana: nel 2002 i ricchi (il 10 per cento della popolazione) si sono appropriati del 47 per cento delle entrate; nel 2009 questo numero è sceso al 41 per cento. Il 40 per cento della popolazione (i più poveri) ha timidamente aumentato la propria percentuale di entrate, dal 10,7 al 13,2 [iii].
Ci sono vari indizi dell’aumento della concentrazione di ricchezza, tra questi: le generose concessioni al capitale negli appalti pubblici di ferrovie, strade, porti, impianti idroelettrici, aeroporti e stadi; il boom immobiliare nelle grandi città, che ha drasticamente aumentato i prezzi delle abitazioni; e i violenti sgomberi di case popolari associati all’elitizzazione delle città a partire dai mega eventi. Dal 2008, con una inflazione al 34 per cento, i prezzi delle rendite e del metro quadrato residenziale a Rio de Janerio sono cresciuti del 130 per cento e del 212 per cento, 70 mila persone sono state sgomberate a causa delle opere per i mega eventi o adducendo che vivevano in aree a rischio, utilizzando il programma “minha casa, minha vida” come moneta di scambio per allontanare verso la periferia urbana della città.
La politica limitatamente distributiva ha beneficiato di una congiuntura internazionale favorevole che ha contribuito a ridurre la povertà in tutta l’America Latina. Dopo essersi mantenuti dagli anni ottanta sullo stesso livello, i tassi di povertà sono scesi in tutta la regione dal 43,9 al 31 per cento della popolazione, tra il 2003 e il 2010. Nonostante ciò, questa congiuntura è stata segnata da fattori instabili; specificatamente nel caso brasiliano, a partire dal 2007 da una valanga di capitali stranieri.
L’economia brasiliana sembra ritornare alla sua vulnerabilità esterna. Basa l’equilibrio della bilancia dei pagamenti su un fattore ciclico come le entrate di capitali stranieri, la cui stabilità raramente arriva a più di otto anni ed espone le economie agli attacchi speculativi, debilitano le riserve e provocano un aggiustamento recessivo.
Difesa dei fondamenti per una politica economica neoliberista, limitata distribuzione di ricchezza, mantenimento dei livelli di povertà, concentrazione della proprietà, violazione della sovranità nazionale, elitizzazione e privatizzazione delle città in funzione dei mega eventi, smobilitazione dei movimenti sociali, utilizzo dei vecchi metodi parlamentari, vuoto ideologico nel sistema dei partiti, difesa dei monopoli dei mezzi di comunicazione, mantenimento della legislazione conservatrice sull’unione civile e l’aborto, incapacità di revocare la legge di amnistia, compromessi con l’agronegozio e lentezza nella demarcazione delle terre indigene. Questi sono gli equivoci e le omissioni che hanno scollegato i dirigenti politici petisti dal sistema politico che guida le grandi maggioranze rappresentate dalla popolazione brasiliane e che costituisce lo scenario delle esplosioni popolari.
Che viene dopo
Le proteste si sono scontrate in Brasile con il consenso politico neoliberista e la legittimità della democrazia rappresentativa, nella sua versione liberale e centrista, che con il suo carattere oligarchico e diseguale riconosce la propria incapacità di fornire diritti sociali. Questa democrazia entra in contraddizione con le promesse di uno stato repubblicano, basato sul mandato popolare e sul monopolio della competenza tecnica dell’apparato tecnico-burocratico e delle elite dirigenti dei tre poteri. Anche se c’è un probabile riflusso delle proteste, puntano a svuotare progressivamente il centro politico e nei prossimi anni possono riprendere ciclicamente la loro offensiva nel contesto dei mega eventi e in una possibile crisi della bilancia dei pagamenti brasiliana.
Si aprono finestre di opportunità affinché gli estremi –sinistra e destra– si contendano il protagonismo. Nell’attuale crisi politica una alternativa alla sinistra richiederà di avere la capacità di unire le mobilitazioni popolari alle risposte istituzionali che promuovono la democrazia partecipativa e danno la priorità alle politiche sociali. Nonostante ciò, si presentano notevoli difficoltà per questo.
Una possibilità è quella di una svolta a sinistra del PT, ma l’impegno del governo di Dilma con il capitale finanziario e con le frazioni oligopolistiche del capitalismo dipendente gli impedisce di appoggiarsi alle mobilitazioni popolari e di orientarle verso i grandi temi nazionali che permettano di rompere questi vincoli. Non c’è un’altra ragione che dei cinque patti proposti dal governo ai movimenti sociali, il primo sia stato sulla stabilità economica. Il suo scopo è disciplinare e sottomettere alla politica economica i movimenti sociali che sono fuori del controllo governativo. Il tentativo di rinnovare il sistema politico introducendo la democrazia partecipativa è stato bloccato quando ha semplicemente percorso i cammini istituzionali.
La proposta di un’unica assemblea costituente ha puntato sulla direzione corretta, soprattutto essendo composta da rappresentanti della società civile e dei movimenti sociali, e non da deputati e senatori. Ma quando non si è unita alla mobilitazione popolare, è perita in meno di 24 ore e ha subito la reazione negativa della base alleata e dell’opposizione nel Congresso. La proposta di plebiscito che la sostituisce passa anche questa attraverso un profondo logorio nel Congresso e si rischia di effettuarlo solo nelle elezioni del 2018. Se ha il merito di porre il tema del finanziamento pubblico delle elezioni, lo fa in modo avventuroso perché non è maturo nella coscienza popolare e il periodo di dibattito sarà breve. Se è visto come attività superiore della riforma politica, il plebiscito la rende molto limitata e non permette il controllo popolare sui mandati nei poteri ligislativo, esecutivo e giudiziario.
D’altra parte, i partiti alla sinistra del PT non sembrano essere in condizione di dirigere i movimenti di massa e hanno una bassissima presenza nei sistemi rappresentativi statali, municipali e nazionale. La possibilità di una effettiva risposta della sinistra passa per un cambiamento di orientamento del PT in questa direzione o di una frattura all’interno del partito che permetta la composizione di un fronte delle sinistre che stabilisca alleanze prioritarie con le classi lavoratrici, con i movimenti sociali e le grandi maggioranze.
I percorsi per un tale cambiamento sono difficili e complessi, ma non sono impossibili, anche se possono suscitare arretramenti importanti. Un caso simile è quello del peronismo argentino, osservate le importanti differenze [iv]. In Argentina l’adesione del peronismo attraverso il menemismo all’ordine neoliberista ha svuotato lo scenario da alternative politiche e ha creato un ambiente di proteste e di movimenti insurrezionali, la cui maggiore espressione è stata il “che se ne vadano tutti!”. Questo scenario è stato superato solo con la rinascita di un peronismo popolare per mezzo del kirchnerismo. La questione è: come fare nel caso brasiliano questa transizione senza la mediazione di una sconfitta politica importante e ad alto rischio? Sarà possibile? Questo dipenderà dalla forza dei movimenti sociali e dal grado di autonomia del partito di fronte al governo nel fargli pressione nella direzione dei movimenti di massa.
La destra neoliberista sembra contare su più risorse per approfittare della immediata congiuntura, ma i suoi quadri politici e i suoi partiti tradizionali sono molto demoralizzati e l’alternativa più realizzabile è quella di un candidato che venga da fuori del circuito tradizionale, appoggiato dal sistema mediatico. Nel frattempo, è dubbio che abbia la forza sufficiente per trionfare nel 2014, perché il PT ha in ultima istanza la possibilità di usare una candidatura di Lula, relativamente lontano dalla crisi istituzionale giacché non occupa una funzione politica diretta nell’attuale congiuntura.
Una vittoria della destra nelle elezioni del 2014 e il ritorno alle forme più radicali del neoliberismo inaspriranno la polarizzazione e le tensioni sociopolitiche nella società brasiliana, riorganizzeranno l’equilibrio delle forze di partito, e produrranno impatti fortemente regressivi in America del Sud, per cui si contribuirà all’isolamento dei governi popolari della regione.
Nell’immediato contesto brasiliano la destra fascista che è scesa nelle strade non ha maggiori prospettive. Non c’è una situazione istituzionale per un colpo di stato, come si è fatto credere in qualche momento delle proteste. Il governo petista ha una ampia rappresentanza nel parlamento –che si manterrà in caso di rielezioni–, che è sotto l’offensiva delle proteste sociali, la qual cosa rende poco probabile qualsiasi tentativo. I militari non hanno nemmeno la forza politica per agire in modo indipendente. Non lo fecero nel 1946 [v] e le possibilità che lo facciano con successo sono minime per lo storico logoramento che hanno accumulato e senza un appoggio sociale più ampio. Non ci sono ragioni per cui le borghesie brasiliane, fino a qui beneficiate dai governi petisti, appoggino un movimento di questo tipo. Nel frattempo, se si sentono sotto pressione in un vicino futuro, possono cercare di riavvicinarsi ai gruppi fascisti. È necessario studiare questi movimenti ed evidenziare la loro connessione con le milizie, l’apparato poliziesco militare, le organizzazioni di partito e imprenditoriali.
*Carlos Eduardo Martins è professore aggiunto e capo del dipartimento di scienze politiche dell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ). È coordinatore del gruppo di lavoro “Integrazione e unità latino-americana e caraibica” (CLACSO) e autore del libro “Globalização, dependência e neoliberalismo na América Latina”, Editorial Boitempo (2011).
Note:
[i] Nel 2011, secondo il PNAD, il 64,5 per cento dei lavoratori brasiliani ricevevano fino a due salari minimi, come dire, 660 dollari. Il lavoro informale era sostanzialmente sceso dal 2002, quando arrivò al 43,2 per cento della popolazione economicamente attiva, ma continuava a raggiungere il 33 per cento della medesima.
[ii] Gli anni di scolarizzazione della popolazione con più di 25 anni sono aumentati da 4,8 anni a 7,2 anni tra il 1990-2012. Nella zone urbane, nel medesimo periodo, la scolarità è passata da 6,6 anni a 9,2 anni tra i giovani di 15-24 anni. Vedere Panorama Social de la CEPAL, 2012.
[iii] Vedere Panorama Social de la CEPAL, 2012.
[iv] Tra le differenze c’è il fatto che il menemismo significa un progetto neoliberista molto più radicale dei governi che Lula e Dilma sostengono e il fatto che l’Argentina è sprofondata in una profonda crisi economica, dalla quale il Brasile è abbastanza lontano. Anche se il paragone ci sembra pertinente.
[v] Questi, anche nel 1964, per agire ebbero bisogno di una apparenza di legalità: la fraudolenta dichiarazione da parte del Congresso Nazionale di vacanza della presidenza della repubblica.
Traduzione dal portoghese di Brisa Araujo
Pubblicato il 23 settembre 2013
Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Carlos Eduardo Martins, “Las flores que nacerán de la Primavera Brasileña” pubblicato il 21-09-2013 in Desinformémonos, su [http://desinformemonos.org/2013/09/las-flores-que-naceran-de-la-primavera-brasilena/] ultimo accesso 21-10-2013. |