Il processo di ri-democratizzazione del Brasile nel decennio del 1980 ha avuto due segni caratteristici importanti: la crisi fiscale dello stato, conseguenza del modello di sviluppo portato avanti dalla dittatura, basato su un elevato indebitamento estero, e l’elaborazione di una nuova Costituzione. In quest’ultima, la mobilitazione della società è riuscita ad introdurre forti valori di cittadinanza, impegnando lo stato sui diritti sociali come l’educazione e la salute. Avendo come esempio le socialdemocrazie europee, la nuova Costituzione disegnava modelli di politica sociale definiti secondo principi di universalità e gratuità, che allo stesso tempo entrava in conflitto con i problemi di finanziamento dello stato.
Così, agli inizi del decennio seguente, il neoliberismo brasiliano ha trasformato il modello di politica sociale della nuova Costituzione nel suo prediletto bersaglio di critica. Si trattava di un tentativo di demolire l’immagine della “Costituzione Cittadina”, rivelando i problemi di azione delle agenzie statali e la loro presunta inefficienza, sempre contrapposta alla “modernità”, agilità e flessibilità dei meccanismi di mercato. Lo slogan dei neoliberisti brasiliani era che l’unica soluzione alla crisi economica fosse la riforma dello stato. Modernizzare lo stato era sinonimo di diminuire le sue funzioni e ridurre i costi che non fossero considerati essenziali. Tutto ciò che potesse essere consegnato al mercato, doveva esserlo. Oltre alle privatizzazioni, la riforma dello stato del governo di Fernando Henrique Cardoso proponeva che i grandi servizi sociali dovessero essere gestiti da organizzazioni non statali, sempre più meno dipendenti dalle casse fiscali e sempre più capaci di generare le loro proprie risorse. L’educazione superiore si inquadrerebbe in questo gruppo.
Operando con questo ideologia, gli intellettuali del neoliberismo brasiliano criticarono duramente l’educazione superiore pubblica del paese. All’epoca, il Brasile contava su 50 università pubbliche sotto l’amministrazione del governo federale, più altrettante amministrate dai governi statali. Queste istituzioni coprivano circa il 40% degli studenti brasiliani e offrivano la migliore e più prestigiosa formazione. Non riscuotevano mensilità né tasse significative. Le loro risorse erano soprattutto quelle che le assegnava lo stato. Stando così le cose, i posti vacanti nelle università pubbliche erano i più contesi tra i giovani che volevano accedere all’educazione superiore. L’argomento liberale era che tali università provocavano una forte distorsione nel sistema brasiliano, cioè, essendo sostenute con risorse pubbliche, si prendevano cura dei figli delle classi più privilegiate. Così, l’educazione pubblica sarebbe un fattore riproduttore di disuguaglianza sociale. Siccome la transizione delle università verso l’amministrazione di organizzazioni non statali era un processo complicato, anche se desiderato, la via d’uscita più semplice sembrava essere l’introduzione della riscossione di tasse. In questo modo, dichiaravano, lo stato impegnava meno risorse nell’educazione superiore e potrebbe concentrare le proprie risorse nell’educazione di base.
L’idea non era per nulla una novità. Il suggerimento di focalizzare gli investimenti pubblici nell’insegnamento emergeva nei documenti elaborati dalla Banca Mondiale nel decennio del 1990 rivolti ai paesi meno sviluppati. In tempi di crisi del finanziamento dello stato, questa sembrava, secondo la Banca Mondiale, la migliore via d’uscita per ottimizzare le spese pubbliche. Come sfondo c’era l’antica idea liberale di una divisione internazionale del lavoro nella quale la produzione di conoscenza a livello superiore non riguardava i paesi periferici. Queste concezioni furono il marchio ideologico della politica educativa del governo di Cardoso, che per otto anni intraprese significativi sforzi per rafforzare la presenza del mercato nell’educazione superiore e ridurre i costi delle università pubbliche. All’inizio del suo governo, tra gli anni 1996 e 1998, quando ancora possedeva una alta popolarità, il governo di Cardoso cercò senza riuscirci di convincere l’opinione pubblica dell’importanza della riscossione di tasse nell’educazione superiore. Non riuscì nemmeno a consolidare una maggioranza nel Congresso Nazionale che gli permettesse di portare avanti la proposta. Nonostante ciò, la sua politica di diminuzione delle risorse per le università fu ampiamente praticata con serie conseguenze per queste istituzioni.
La critica del programma di Cardoso fu pioneristicamente intrapresa dalle organizzazioni studentesche e sindacali dell’educazione. L’argomento centrale era che la riscossione di mensilità nell’educazione superiore, con il pretesto di promuove equità, diminuirebbe ancor di più le possibilità della popolazione più povera di entrare nell’educazione superiore. Qui bisogna dire che l’università brasiliana non fu mai il centro elitario che i neoliberisti dipingevano. Per questi paradossi che ad una buona indagine storica tocca spiegare, la dittatura militare brasiliana promosse una forte espansione del sistema universitario superiore, diventando una via di mobilità sociale ascendente per una parte della popolazione. Le statistiche socio-economiche sul profilo degli studenti universitari brasiliani mostravano anche che, nel decennio del 1990, circa la metà degli studenti immatricolati in queste università provenivano da scuole pubbliche, non frequentate dalle elite brasiliane. Ora, era vero che l’università possedeva alcune enclave elitarie, in particolare i corsi di professioni con alto valore di mercato, come medicina, diritto e ingegneria. In questo modo, la riscossione indiscriminata di mensilità avrebbe l’effetto di elitizzare ancor più l’università, chiudendo il cammino dei figli di famiglie povere o rendendo difficile anche la permanenza degli strati medi, che in quel periodo soffrivano per gli aggiustamenti di una politica economica apertamente recessiva. Orbene, la riscossione selettiva si mostrava poco rilevante nella raccolta di risorse per il finanziamento. Allora dovevamo chiederci: varrebbe la pena infrangere il principio universale di gratuità dell’educazione pubblica solo per riscuotere una risorsa che nemmeno sarebbe stata sufficiente a coprire i costi dell’università? Dovremmo cambiare la garanzia universale per un pugno di dollari?
La risposta del movimento studentesco fu decisamente negativa. Difendere il campo delle politiche universali significava stabilire una riserva di fronte alla logica competitiva e individualista del neoliberismo. La gratuità dell’educazione non può passare attraverso una analisi selettiva e burocratica del reddito familiare di ciascuno studente: è un diritto di tutti e un dovere dello stato. Non abbiamo mai avuto l’illusione che la riscossione di tasse potesse ampliare le risorse per l’educazione e favorire i più poveri. Al contrario, sarebbe stata una apertura ad una logica della politica pubblica che naturalizzava la disuguaglianza e stimolava la mercantilizzazione dell’insegnamento, avvicinando così l’esperienza universitaria alla logica del consumo. La gratuità, in questo caso, esce dal campo dei diritti ed entra nella sempre più precaria e vulnerabile sfera dell’assistenzialismo. Dal punto di vista dei valori che indirizzano le politiche pubbliche, era un immenso arretramento.
Furono molte le lotte organizzate contro la riscossione di tasse. Dibattiti, cortei, blocchi e scioperi di studenti e professori. Tra il 1995 e il 1999 la resistenza studentesca al pagamento di tasse e mensilità fu decisiva per impedire l’avanzamento della proposta neoliberista. Nel periodo seguente (1999-2002), con il raffreddamento del progetto del governo, il movimento si fece in quattro per la difesa e il recupero delle risorse materiali ed umane delle università che erano state duramente colpite nel decennio precedente. Questa mobilitazione unì ampi settori della comunità universitaria, terminando con un grande sciopero di professori e studenti che nell’anno 2001 ricevette l’appoggio di numerosi rettori, anche della loro Associazione Nazionale. In questa occasione l’Unione Nazionale degli Studenti (UNE) propose al Congresso Nazionale l’approvazione di un Piano di Emergenza per il recupero dei fondi, la contrattazione dei professori e la democratizzazione dell’accesso.
La via d’uscita per l’università pubblica dovrebbe passare nuovamente attraverso la discussione della relazione dell’università con la società, rafforzando la sua dimensione pubblica e scontrandosi con le concezioni che vedevano nell’educazione una estensione delle relazioni di mercato. Relativamente al finanziamento, le organizzazioni studentesche difesero la ricostituzione delle risorse pubbliche per l’università, elevando la priorità dell’educazione nel bilancio pubblico, che ci ha portati ad una più ampia critica della politica economica del governo di Cardoso, che comprometteva gran parte del bilancio con il pagamento di interessi del debito pubblico. Relativamente all’accesso, l’enfasi fu sulla democratizzazione senza riscossioni né tasse. Su questo aspetto, credo che le proposte sorte in Brasile furono non solo molto creative, ma anche, così come ha dimostrato il tempo, positive.
La politica delle “quote” fu forse una delle innovazioni più creative per rispondere al problema della democratizzazione dell’accesso all’educazione superiore. Anche se, dentro la tradizione delle politiche di azione di sostegno, è molto chiara l’ispirazione statunitense della proposta, l’esperienza brasiliana finì con l’acquisire un proprio profilo. Se negli USA le quote fanno parte di azioni di sostegno limitate all’aggiustamento delle differenze etniche, in Brasile la politica delle quote ha assunto una dimensione più ampia, legata alla stessa interpretazione che la società brasiliana dà delle proprie differenze sociali e razziali. Senza negare l’importanza della discriminazione “di colore” (etnica) nella disuguaglianza educativa e sociale del paese, molte delle proposte di quote approvate nelle università brasiliane hanno posto l’enfasi sulla promozione dell’insegnamento scolastico pubblico. In Brasile, le scuole private ottengono un tasso di successo nella promozione dei loro studenti nelle università molto superiore a quello delle scuole pubbliche. Così, i figli delle famiglie agiate cercano le migliori scuole private, mentre la scuola pubblica riceve buona parte dei figli delle famiglie povere. Riservando una parte significativa dei posti vacanti universitari, che in alcuni casi arriva alla metà, solo agli studenti provenienti dalle scuole pubbliche, le università brasiliane sono riuscite a raggiungere due obiettivi fondamentali: valorizzare politicamente e simbolicamente la scuola pubblica e promuovere una maggiore equità nell’accesso all’insegnamento superiore pubblico. L’adozione del sistema è dipeso dalla decisione di ciascuna università e, in questo modo, le regole sono diverse. Alcune combinano riserve di posti vacanti per le scuole pubbliche con quote per le minoranze etniche; altre hanno preferito adottare agevolazioni negli esami di selezione per gli studenti formati nel settore pubblico. Poche sono le istituzioni che non hanno adottato nessuna politica di azione di sostegno.
Non è necessario spiegare quanto questionata sia stata e continua ad essere la misura, ma i suoi risultati sono abbastanza promettenti. La permanenza degli alunni è stata incentivata con programmi governativi e l’adempimento scolastico di questi studenti nulla ha da invidiare a quello dei loro compagni, arrivando in alcuni casi anche a superarli; ci sono indagini che descrivono legami di solidarietà significativi non solo tra i quotisti (che studiano grazie alle quote), ma anche tra loro e i loro pari.
Terminando, debbo dire che il successo della politica delle “quote” o della “riserva di posti vacanti” non deve nascondere i problemi che ancora sono presenti nell’educazione brasiliana, non solo a livello superiore. La costruzione di un sistema educativo articolato intorno ai principi di qualità ed equità è ancora un obiettivo distante. Negli ultimi dieci anni, la politica per l’educazione superiore è migliorata abbastanza, con il visibile rafforzamento del sistema pubblico. Nonostante ciò, in questo stesso periodo, la concorrenza con il sistema privato non è diminuita. Di fatto, lo stesso governo federale ha adottato, contraddittoriamente, misure favorevoli al finanziamento pubblico di istituzioni private. D’altra parte, le misure per il miglioramento della qualità dell’insegnamento scolastico pubblico vanno producendo effetti molto lentamente, che è poco per un sistema educativo svalutato per tanto tempo.
Con questo articolo non vogliamo dire che la “via brasiliana” di democratizzazione dell’accesso possa essere naturalmente universalizzata. Ciascun sistema educativo ha una traiettoria e problemi specifici. Nonostante ciò, se ci poniamo nel campo dei valori, possiamo dire che ci sono buoni motivi per diffidare del fallimento di principi universali, come quello della gratuità dell’insegnamento pubblico.
Felipe Maia è Laureato in Sociologia (IUPERJ) e dottorando nella medesima disciplina nel IESP-UERJ. È stato Presidente dell’Unione Nazionale degli Studenti del Brasile (2001-2003).
15-05-2013
redseca
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da: |
Felipe Maia, “El movimiento estudiantil brasileño y la educación gratuita” pubblicato il 15-05-2013 in redseca, su [http://www.redseca.cl/?p=4003] ultimo accesso 22-05-2013. |