Javier Giraldo: “Gli investimenti stranieri hanno bisogno di pace”


Lola Matamala

Intervista al difensore dei diritti umani e accompagnatore della Comunità di Pace di San José de Apartadó.

Javier Giraldo è un gesuita colombiano, e accompagnatore della Comunità  di San José de Apartadó. Della sua traiettoria come attivista dei diritti umani, bisogna evidenziare la sua partecipazione alla Commissione di Giustizia e Pace e a riunioni di pace con l’ELN e le FARC. Inoltre, questo religioso colombiano, da 25 anni fa parte in Colombia del CINEP/PPP (Centro di Indagine e di Educazione Popolare/Programma per la Pace). Nella banca dati che coordina, sono state registrate dal 1989 più di 180.000 vittime del conflitto sociale e armato che c’è nel suo paese.

Padre Giraldo è stato a Madrid a fare delle conferenze su diritti umani e su giustizia climatica, una di queste nel Senato. Approfittiamo per parlare con lui sul nuovo processo di pace che la Colombia sta vivendo.

La società colombiana come sta vivendo questo nuovo processo di pace?

Con molte aspettative e molti timori. Soprattutto quei settori sociali che più sono stati vittime di questo conflitto, hanno grandi speranze che il processo raggiunga i suoi obiettivi. Negli ultimi trenta anni ci sono stati molti segnali di pace, e tutti hanno fracassato.

Che bilancio fa del primo incontro di Oslo tra la guerriglia e il governo colombiano, e del modello di processo di pace con riforme sociali?

La cittadinanza più coinvolta, i movimenti sociali e le stesse vittime danno una lettura di speranza, perché per la prima volta si prospettano, in modo chiaro, le radici del conflitto. Il discorso delle FARC è stato radicale, prospettava i problemi molto schiettamente. È preoccupante la discrepanza così profonda che sembra esserci tra i punti di partenza delle FARC e del governo, ma ci rallegra che queste discrepanze possano essere esposte e discusse.

Uno di questi dissensi è quello provocato dal problema delle terre?

Sì. Di fatto, quando è stata annunciata l’apertura dei negoziati, il governo ha fatto riferimento a questo come il problema chiave del negoziato con le FARC, poiché si riferisce alla sua origine come movimento di resistenza contro l’usurpazione e il saccheggio delle terre dei contadini. Bisogna ricordare che i precedenti processi sono stati interrotti per questa questione della riforma agraria. Ora, con la Legge delle Terre, la tendenza del governo e degli imprenditori è di sostituire la barbarie con il mercato.

Ad Oslo Iván Márquez ha duramente criticato la Legge delle Terre, concretamente la titolarità delle terre che vengono restituite.

Iván Márquez ha fatto un discorso molto duro su questa legge, per quanto concerne la titolarità. Quando la Corte Suprema restituisce la titolarità delle terre ai padroni, gli imprenditori preferiscono offrire loro alleanze commerciali o si offrono di comprare le medesime. In questo modo, gli imprenditori riescono a rimanere proprietari. I contadini rimangono soli di fronte a queste pressioni. Ciò che persegue la Legge delle Terre è la legalizzazione di questa situazione. Da qui Iván Márquez prospettava che il titolo di proprietà individuale non è la soluzione del problema agrario poiché cerca di cambiare la barbarie dello sfollamento con il mercato. Aprire questa rendita al mercato. Questo obiettivo lo ha cominciato Álvaro Uribe quando durante il suo mandato dimostrò di non riconoscere le proprietà collettive come le riserve indigene, i consigli comunitari delle comunità negre. Agì senza riconoscere ciò che era previsto nella Riforma Agraria dell’anno 96, come la possibilità di creare un sistema di proprietà collettiva come le zone di riserva contadina. Ancor più, le poche che c’erano, le criminalizzò e le accusò di appartenere alla guerriglia e incarcerò vari suoi dirigenti, e Santos è il continuatore della politica di Uribe.

Secondo il portavoce del governo in questo tavolo di dialogo, Humberto de la Calle, il modello economico non è oggetto di negoziato.

Sì, ma ci sono punti nell’agenda che ambedue le parti hanno concordato, che implicano la discussione e la gestione del modello economico. Per esempio, in uno di quelli si parla di accesso alla terra con un criterio di territorialità, come dire, con il concetto di territorio come integrità dove si contempla l’esistenza dei fiumi e dei boschi. In questo modo il metro quadrato non è una mercanzia redditizia senza tener in conto la terra e l’ecosistema che lo circonda, e questo implica rivedere il modello vigente di economia agraria.

La partecipazione politica delle FARC dopo una loro ipotetica smobilitazione militare è una questione cruciale, come avviene il passaggio da una lotta armata verso una lotta politica istituzionale?

La partecipazione politica delle FARC e la cessazione del conflitto si scontrano con problemi molto gravi. Implica necessariamente la scomparsa del paramilitarismo, e questo è molto complicato poiché in Colombia non c’è una genuina volontà di farlo. Il paramilitarismo ha nel paese un potere economico e militare enorme. Domina regioni intere, gode di privilegi e impunità, in parte grazie alla Legge di Giustizia e Pace promossa dall’ex-presidente Uribe. Il fantasma del genocidio dell’Unione Patriottica per mano dei paramilitari continua a pesare molto. Il paramilitarismo, in questi decenni si è sviluppato moltissimo ed ha nel paese un potere economico e militare enorme. Tutto il mondo  teoricamente lo riconosce. Ancor di più, quando Pastrana vinse le elezioni e venne in Spagna per prendere posizione come presidente, lo intervistarono per chiedergli questa stessa cosa, ed egli rispose che magari fosse possibile, ma questa strada è già stata chiusa come fu dimostrato all’epoca di Betancourt con l’Unione Patriottica, che fare questa proposta alle FARC, era come proporgli di suicidarsi.

Ma le FARC non scartano di formare un partito politico.

Sembra di sì, ma loro sanno che hanno bisogno di molte garanzie e che con le garanzie che hanno con il governo e il contesto attuale, è molto difficile.

In questo processo di pace ci sono alcune questioni che hanno creato un certa insicurezza nella società colombiana. Una di queste è che il presidente Santos non ha risposto con un cessate il fuoco contro la guerriglia, a cosa crede sia dovuta questa decisione?

Credo che sia una concessione ai militari e ai settori molto reazionari della società. Lo fa per tranquillizzare la forza pubblica. Durante il processo del Caguán, questi stessi furono coloro che criticarono lo sgombero militare fatto dal presidente Pastrana. Ma questa situazione mina la credibilità. È una logica molto strana. Di fatto, Álvaro Leyva, amico e compagno di Juan Manuel Santos, oltre ad essere un altro dei negoziatori e mediatori in altri processi, dice che non intende la posizione di Santos e che è risaputo che già stava parlando con Alfonso Cano quando lo fece uccidere.

Un altro dei temi è che le FARC riconoscano le vittime e liberino i sequestrati.

In primo luogo bisogna ricordare che la Legge delle Terre che ha portato avanti Santos non riconosce le vittime di stato e tra i punti che hanno dato luogo a questa agenda per il processo, c’è solo una linea che parla di come risarcire le vittime. La guerriglia ha già detto ad Oslo che le sue vittime ci sono state durante azioni di combattimento. A sua volta, il governo ha commentato che non ha commesso crimini di guerra. Ambedue la parti dicono chiaramente di non aver infranto il Diritto Internazionale Umanitario, ma dalla banca dati del CINNEP posso dire che le vittime che sono morte in scontri armati sono il 20 per cento rispetto alle morti relazionate a tutto il conflitto che sono l’ 80.

Il tema dei sequestri gira intorno ad una grande campagna mediatica. Di fatto, c’è stato un gruppo di parlamentari che si è riunito con Santos per fare pressione sulla guerriglia, ma lo stesso presidente li ha rassicurati che i sequestrati non sono delle FARC.

Che si aspetta dai dialoghi che sono cominciati a l’Avana?

C’è un punto centrale, che è la richiesta di partecipazione al processo dei movimenti sociali e popolari. Le FARC sono d’accordo, ma il governo vuole solo che la società civile presenti le sue proposte on line e includerle in una base di dati. C’è chi pensa che questa questione potrebbe finire con il far abortire i negoziati.

I punti si chiudono con l’attuazione e la verifica degli accordi, che significato ha per ciascuno degli attori?

Lì stanno parlando due linguaggi: il linguaggio dell’accordo è quello del compromesso, e quando il governo firma questo, sta pensando alle implicazioni internazionali da un punto di vista dei propri interessi per gli investimenti. Ma i movimenti sociali stanno pensando molto di più ad una pressione sul governo affinché gli accordi di trasformazione del modello economico possano essere verificati internazionalmente per garantire che non siano violati i diritti umani.

Questo processo di pace in Colombia può essere aiutato dal modello dei processi che ci sono già stati in Centroamerica, concretamente in Guatemala e nel Salvador?

Ambedue i processi sono stati firmati fuori dal paese e quella pace fu il prodotto delle riunioni tra le elite, lasciando la società fuori dai negoziati. In questi paesi, anche se la guerriglia si smobilitò, i crimini continuano, ma per opera di bande criminali spoliticizzate: il problema continua, non ci fu una agenda sociale all’interno del paese. L’ONU fece una missione di verifica in Salvador e non funzionò perché i loro presidenti non dettero attuazione a quanto concordato alla fine del processo di pace. Un compagno dell’Istituto per i Diritti Umani di quel paese mi ha dato le risposte: quei negoziati furono fatti dall’alto e fuori, invece di farli dal basso e all’interno: questo non deve accadere in Colombia.

Di qui la necessità della partecipazione dei movimenti sociali e popolari colombiani a questo processo di pace.

Il conflitto armato in Colombia è molto radicato nel conflitto sociale e danneggia le grandi maggioranze del paese. Le statistiche lo dimostrano chiaramente: più dell’ 80% sono vittime civili.

A causa di questo fatto, ci sono movimenti che traggono molto da ciascuna di quelle, per esempio la Minga Indigena, i contadini attraverso il Tavolo Unitario Agrario, le comunità negre, il Congresso dei Popoli, ecc.

Ma lei come configurerebbe questo spazio di dialogo?

La società civile deve partecipare direttamente alle udienze, come già avvenne nel processo del Caguán. Ovviamente dovranno esserci la guerriglia e il governo. In questo processo che sta finendo di iniziare, ci sono molti movimenti che d’accordo si stanno preparando a partecipare con le loro proposte. Sarebbe una grande frustrazione se si chiudesse questo spazio di partecipazione.

I punti si chiudono con l’attuazione e la verifica degli accordi. Che significato ha per il governo colombiano?

Questo punto ha un doppio significato: il linguaggio dell’accordo è quello del compromesso, e quando il governo firma questo punto, sta pensando alle implicazioni internazionali dal punto di vista dei propri interessi per gli investimenti. In cambio, i movimenti sociali stanno pensando molto di più ad una pressione sul governo affinché gli accordi per la trasformazione del modello economico e di tutto ciò che racchiude questa agenda sociale, possano essere verificati internazionalmente per garantire che non siano violati i diritti umani.

Abbiamo parlato del futuro delle FARC, ma cosa può nuocere a Juan Manuel Santos se il processo fracassa?

Qualsiasi risultato del processo ci sia, sarà vantaggioso per la sua rielezione come presidente. Se fracassa agirà come Pastrana, inizierà nei grandi mezzi di comunicazione una campagna di discredito contro le FARC dimostrando di non aver ceduto nelle sue posizioni.

Alcuni giorni fa, l’ELN ha presentato i suoi delegati per l’inizio dei dialoghi con il governo, crede che negozieranno sugli stessi punti?

Non credo che siano gli stessi perché avverranno in momenti diversi. Ciò che credo è che ambedue i processi si integreranno.

Il Prossimo 27 novembre in Europa viene ratificato il Trattato di Libero Commercio con la Colombia, crede che questa firma abbia accelerato il processo di pace nel suo paese?

Chiaramente sì. Gli investimenti stranieri hanno bisogno di pace. Anche se il presidente Santos ha proposto un processo con riforme sociali, nel suo discorso per prima cosa il pragmatismo. Questi trattati di libero commercio appoggiano ciò che Santos ha chiamato Locomotiva Mineraria (per la quantità di multinazionali che stanno estraendo oro, carbone, ecc. nel paese) e che si sta sviluppando dal precedente governo, fanno sì che la Colombia sia un paese medio-alto per investimenti. Trattati come questo possono portare grandi investimenti in Colombia, ma mostrano poco interesse per la questione sociale, dimenticando quanti stanno fuori dal modello economico, come i milioni di contadini sfollati dal saccheggio delle terre.

Considera necessario che l’Unione Europea accompagni o faccia da garante?

Anche se già sono contemplati due paesi garanti, Norvegia e Cuba, e Venezuela e Cile come accompagnatori, esiste la possibilità di ampliare la partecipazione ad altri paesi e sarebbe molto positivo. È molto importante per vari aspetti, il fatto è che questi paesi che hanno avuto una così grande partecipazione in Colombia, dovrebbero ascoltare ciò che sta vivendo il paese per tener conto degli effetti delle loro politiche.

27-11-2012

Rebelión

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da:
Lola Matamala, “Javier Giraldo: “La inversión extranjera necesita paz”pubblicato il 27-11-2012 in Rebelión, su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=159839&titular=javier-giraldo:-“la-inversión-extranjera-necesita-paz”-] ultimo accesso 03-12-2012.

 

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