Argentina dopo il clamore dell’ 8N


Pablo Stefanoni

L’ 8 novembre (8N) centinaia di migliaia di persone sono scese a Buenos Aires e in varie altre città argentine a “cacerolear” (a battere le casseruole, n.d.t.) contro il governo di Cristina Fernández de Kirchner (CFK). Credo che la cifra di un milione sia esagerata ma sono stati molti, e più complicato che stabilire cifre è rendere conto del significato di questa mobilitazione che, data la sua ampiezza, non poteva essere omogenea, né dal punto di vista di classe né delle ideologie che hanno mobilitato i partecipanti. Con il dubbio, i canali dell’opposizione non hanno dato il microfono ai manifestanti, che al momento di chiedere una maggiore qualità istituzionale, una richiesta molto legittima alla luce della gestione dello stato da parte del kirchnerismo, potevano uscire con cose come “che venga Néstor a portarsi via Cristina”, attaccare le politiche sociali del governo con argomenti sullo stile di Mitt Romney o chiamare “la Cavalla” la presidente … A cercare questo tipo di risposte, è stato il canale statale quello che è riuscito a raccogliere delle testimonianze, con una giornalista che finiva più col discutere con i manifestanti che intervistarli. Peronisti presidenziabili come il governatore bonaerense Daniel Scioli si sono guardati dal condannare i “caceroleros” come lo hanno fatto i kirchneristi che lì vedono solo gente manipolata dal gruppo Clarín (danneggiato dalla legge sui mezzi di comunicazione), golpisti, classi medie fasciste che scendono a gridare solo perché non possono comprare dollari. Peronisti dissidenti come il governatore di Córdoba, José Manuel de la Sota, hanno appoggiato i “caceroleros”.

Ciò che complica le analisi in bianco e nero è che se tutto questo sta nel “cacerolazo”, il governo K è lontano dall’essere espressione trasparente di un modello post-neoliberista e progressista. Un esempio sintetizza tutte le sue ambivalenze: l’incidente ferroviario dello scorso febbraio non è stato solo una fatalità; i 51 morti mettono a nudo gli opachi ma persistenti legami tra il governo, la burocrazia sindacale mafiosa e gli imprenditori saccheggiatori che partecipano al festino milionario dei sussidi per mantenere economiche le tariffe del trasporto. Qualcosa di simile succede con la Legge dei mezzi di comunicazione. Gente come José Luis Manzano, ex ministro stella di Carlos Menem ed ex socio commerciale dell’anticastrista/terrorista Jorge Mas Canosa, oggi sta nell’ideologia nazional-popolare “contro i monopoli”.

La continuità, in molti sensi, del modello di accumulazione dei 90 e la difesa delle iniziative megaminerarie contro le assemblee cittadine sono altri esempi, che non annullano misure progressiste come il processo ai genocidi della dittatura, il matrimonio egualitario, i miglioramenti salariali o le alleanze internazionali con l’America Latina, ma rendono tutto abbastanza meno semplice di quello che l’inopportuno “racconto” ufficiale  vuole vedere. A questo si aggiunga l’irritante manipolazione dell’indice dei prezzi con lo scopo di nascondere l’inflazione per pagare meno tassi di interesse con i buoni del debito pubblico, ma a costo di distruggere le statistiche nazionali. E, una “trappola” al dollaro che cerca di essere presentata come una misura patriottica, quando vengono bloccate le divise soprattutto per poter pagare il debito estero ed importare combustibili (YPF è stata nazionalizzata dopo otto anni durante i quali Repsol è stata alleata del potere).

Il problema del “cacerolazo” è che sebbene possa porre alcune limitazioni di tipo istituzionale, come contribuire a scoraggiare coloro che insistono nel permettere una riforma costituzionale rielezionista, le sue parole d’ordine (e il clima che crea) sono più funzionali ad uscite a destra che a sinistra. Se la destra se ne può appropriare meglio della sinistra o del centrosinistra critico (anche se quest’ultimo potrebbe, forse, beneficiarne in qualche misura) è perché i manifestanti non hanno fatto alcuno sforzo per differenziarsi da politici come Mauricio Macri e in molti casi inalberavano cartelli dove rifiutavano che l’Argentina fosse “come il Venezuela”, o considerano tutti i poveri come una massa irrazionale gestita a piacere dai sussidi statali. “Non offendere tutti con il tuo voto”, gridava una signora ad una donna che aveva riconosciuto che le era stata data una abitazione statale.

Ma certamente, dagli stessi governativi che rivendicano gli indignati di Spagna o New York, viene chiesto a quelli che protestano, se vogliono fare politica, di costituire (o appoggiare) un partito e di vincere le elezioni (la stessa cosa che dice Rajoy!). Li accusano di essere anche “antipolitici” pretendendo di non ricordare che l’opportunità politica di salire sulla poltrona presidenziale, per chi fino ad allora era governatore dell’estremo sud argentino,  venne fuori da un 2001 dove si gridava “che se ne vadano tutti” e che fu la manifestazione “antipolitica” più grande della storia argentina, se per antipolitica si intende, in questo caso, il rifiuto dell’elite politica che aveva portato il paese sul precipizio … per il momento, paradossalmente il kirchnerismo è un “populismo” sui generis, abbastanza di classe media, che vince in voti ma è solito perdere la strada. Nel 2008 superò la crisi della campagna e ha superato l’ 8N. Il problema è che CFK non può più presentarsi ad altre elezioni e per il momento non ha un successore. Lo scenario elettorale comincerà a prendere forma con le elezioni parlamentari dell’anno prossimo, mentre i “caceroleros” si galvanizzano continuando a riunire gente nelle strade.

13-11-2012

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Fonte originale: www.paginasiete.bo

da Rebelión

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da:
Pablo Stefanoni, “Argentina bajo el ruido del 8Npubblicato il 13-11-2012 in Rebelión, su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=159119&titular=argentina-bajo-el-ruido-del-8n-] ultimo accesso 13-11-2012.

 

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