Non molto tempo fa, la Bolivia ha sorpreso per la forza con cui indigeni e contadini sono giunti allo stato ed hanno redatto una nuova Costituzione.
Decolonizzazione, Vivere Bene, Autonomia Indigena, Plurinazionalità sono stati concetti che venivano costruiti con le lotte indigene, si costituzionalizzavano ed oggi li ascoltiamo nel dibattito statale. Però anche contro lo stato.
I concetti sono stati portati nell’Assemblea Costituente dal Patto di Unità, incontro inedito di organizzazioni sociali delle terre alte e basse, contadine e indigene, che ha preparato la bozza di Costituzione assunta dal MAS (Movimento al Socialismo). Era un incontro eccezionale di maggioranze e minoranze, mai prima né dopo del processo costituente quelle organizzazioni avevano lavorato e marciato insieme in questo modo. Unendo gli uni con gli altri c’era il “tutti siamo indigeni” dei 62% dichiarati indigeni nel censimento del 2001, e presente anche nel voto massiccio per Evo Morales (54% nel 2005, 67% nell’elezione revocatoria del 2008).
Dopo il 2009, con la nuova Costituzione approvata il governo avrebbe cercato la rielezione con il discorso del “salto industriale” e della “rivoluzione produttiva”. La consegue con il 64% dei voti. È un nuovo periodo, il Patto non avrebbe resistito. Subito i sindacati cocaleri e contadini sarebbero stati da un lato, insieme al governo; le organizzazioni indigene da un altro. Voci governative avrebbero accusato le ultime di essere funzionali alla destra e manipolate dalle ONG, gli indigeni non si collocano nella “Bolivia Produttiva”. Già avvicinandoci alle elezione del 2014, dove Morales cercherà un’altra rielezione, si dovrà fare un bilancio di questo progetto che ha autorizzato i transgenici, ha nazionalizzato imprese e che continua a cercare di industrializzare le risorse naturali. Anche delle politiche di inclusione, contro il razzismo e di altre. Però qui ci interessa il punto di rottura del Patto di Unità, dove i concetti costituenti della plurinazionalità si ricollocano fuori dallo stato.
Il conflitto del TIPNIS (Territorio Indigeno Parco Nazionale Isiboro Sécure) sorge per il rifiuto di una strada che dovrebbe passare attraverso il nucleo vergine di una selva che per certe condizioni ecologiche è unica. Lo scontro tra il piano del governo e le comunità torna ad essere un evento politico spartiacque che riordina le forze e apre una nuova situazione. Nel 1997 e definitivamente dopo nel 2009 lì erano stati intestati un milione di ettari a tre etnie (Chiman, Yuracaré e Mojeño-Trinitario) e decine di comunità (con circa 5 mila persone secondo il censimento) ai quali si arriva attraverso i fiumi Isiboro e Sécure, con i loro affluenti. Le richieste di demarcazione territoriale datano dalla marcia del 1990, sempre segnalata nella convocazione dell’Assemblea Costituente come la prima pietra miliare.
Importanti protagonisti dei primi anni del governo di Evo, nella questione del TIPNIS si sarebbero convertiti in dissidenti molto critici. Nel 2011 Evo Morales dichiara che in realtà essere il “primo presidente indigeno” è più una cosa della stampa, e che anzi lui si era sempre sentito “primo presidente sindacalista” della Bolivia. Di fronte alle camere il più alto dirigente contadino dichiara che gli indigeni sono selvaggi che debbono fare posto al progresso. Gli indigeni amazzonici vengono chiamati latifondisti con terra improduttiva che deve essere ripartita. Nel 2011 una marcia giungeva a La Paz per opporsi alla strada che Evo Morales aveva promesso alle sue basi cocalere e che aveva dichiarato che sarebbe stata fatta “sì o sì”. Geograficamente la strada sarebbe una via d’uscita per il Chapare, centro cocalero e culla politica di Evo Morales. Il progetto si integrerebbe all’IIRSA (Iniziativa per l’Integrazione della Infrastruttura Regionale Sudamericana), da vari è letta come una via d’uscita del Brasile verso il Pacifico, nuovi mercati ed espansione del capitale. Una banca statale brasiliana finanziava l’opera. Alcuni difensori del TIPNIS tragicamente raffiguravano che, insieme alla strada, sarebbero arrivati camionisti e bordelli che avrebbero fatto prostituire le donne indigene. Anzi, in un discorso alle sue basi cocalere Evo Morales ha detto che gli uomini debbono entrare e cercare le donne indigene per “farle innamorare” e convincerle dell’importanza della strada, cosa che farebbe se avesse tempo.
Nel settembre del 2011 la VIII marcia indigena è fermata a Chaparina da un cordone contadino che bloccava la sua avanzata. La soluzione è terribile: la polizia che separava indigeni da contadini colonizzatori reprime gli indigeni, gli lega le mani e gli copre la bocca con nastro isolante in una vera caccia alle persone che venivano fermate con il proposito di riportarle in aereo nelle terre basse. Una occupazione dell’aeroporto di San Borja permise di liberarli senza che fossero arrestati, e iniziò una campagna di appoggio che si espresse con una affollata manifestazione a La Paz quando la marcia che era ricominciata entrò nella città.
Il governo rispose con una legge (N. 180) che dichiarò la “intangibilità” del TIPNIS, proibendo la strada. Era solo una tregua, ma non faceva tornare in vita il Patto di Unità e “tutti siamo indigeni”. Ora nessuno era indigeno, nemmeno gli indigeni del TIPNIS accusati dal governo di essere trafficanti di legname e ancor meno i loro dirigenti – avrebbero cominciato ad essere perseguitati giudiziariamente –, che erano accusati di essere “falsi indigeni”. Però questa non sarebbe stata la posizione definitiva del governo e poco tempo dopo in risposta alla VIII marcia a La Paz ne inizia un’altra di produttori di coca sindacalizzati a favore della strada, voluta dal governo che ora insisteva sul fatto che anche i cocaleri sono indigeni, come era all’epoca del Patto di Unità, ma con un senso completamente diverso. Questa marcia dà luogo alla controffensiva del governo con una nuova legge (N. 222), in contraddizione con quella della “intangibilità”, convocando una consultazione a favore del progetto, in quel momento già in via di attuazione.
Con questi nuovi sviluppi il governo rompe il contratto con l’impresa costruttrice brasiliana (OAS) e inizia una nuova campagna a favore della consultazione, che dopo rinvii sarebbe incominciata il 29 luglio 2012. Poco prima, la IX marcia indigena delle terre basse era giunta a La Paz, con minori appoggi che precedentemente, e con una strategia del governo più efficiente nel neutralizzarla. Era la prima volta che una marcia indigena si opponeva ad una consultazione invece che esigerla. Il fatto è che l’usuale rivendicazione indigena ora sembrava una tranello. Il governo facendo una campagna mediatica, con regali comunità per comunità, cooptando dirigenti e dividendo in due la centrale indigena dell’Oriente, avanzava.
Una delle dirigenti indigene della marcia sarebbe stata pubblicamente denunciata di essere stata condannata in Brasile come “mula”, per aver portato cocaina. Non sarebbero state menzionate le 84 fabbriche di cocaina e le 154 pozze di macerazione trovate nel 2011 nel Polígono 7, dove vivono i sindacati cocaleri che avrebbero marciato a favore della strada. La foglia di coca, è presente in vari modi, anche sotto forma della presa di decisioni dell’unico magistrato del Tribunale Costituzionale Plurinazionale che si è opposto alla ratificazione della consultazione in un ricorso di incostituzionalità (sentenza 300/2012).
Nuovamente il governo era su una linea di definizione generica della identità indigena che aveva accompagnato l’arrivo di Evo Morales al governo e la nascita del Patto di Unità. La stessa aveva prima permesso un produttivo dialogo tra particolarità che si incontravano e davano la possibilità a che le rivendicazioni delle minoranze giungessero allo stato e si imponessero contro una opposizione razzista che il MAS relegherebbe nelle sue regioni. L’autonomia dei dipartimenti (provincie) ora doveva decentralizzarsi in autonomie indigene, il Vivere Bene delle comunità dell’altipiano arrivava nelle terre basse e nello stato come alternativa allo sviluppo.
Però se si insisteva nuovamente sul fatto che tutti erano indigeni, sebbene “facendoli passare per contadini”, o sindacalizzati che fossero, ora lo stato cercherebbe di dimostrare che “tutti siamo indigeni” ma “a favore dello sviluppo” (e della strada attraverso il TIPNIS). In concreto, la definizione generica ora serviva a diluire il potere di decisione delle comunità del TIPNIS e la protezione del loro territorio come unità collettiva. Ignorando le organizzazioni storiche e rappresentative dei popoli, il governo inizia così una consultazione che non era preventiva, né libera, né informata, né in buona fede, come esigono la Costituzione, il trattato 169 dell’OIL – firmato dalla Bolivia nel 1991 – e la Dichiarazione dell’ONU sui popoli indigeni posta nella Costituzione e ratificata dal congresso nel 2007.
Nella consultazione “a posteriori” portata avanti dal governo, venivano incluse le comunità del suddetto Polígono 7, che nel processo di titolazione (delle terre, n.d.t.) avevano espressamente rinunciato a far parte del territorio indigeno. Si tratta di popoli dove era entrato l’affare della coca e che non volevano rinunciare alla proprietà individuale. Tra questi e le comunità del TIPNIS con proprietà collettiva della terra era stata tracciata una “linea rossa”, concordata con i cocaleri (con Evo Morales come dirigente, nel 1992-4) ma che la coca continuamente oltrepassa.
Non è giusto considerare ora i cocaleri dei narcotrafficanti e capitalisti incalliti quando poco tempo fa erano l’avanguardia della decolonizzazione, ma bisogna riconoscere che non è giusto che anche queste comunità facciano parte della consultazione sulla costruzione della strada. Dopo aver cercato che la strada si risolvesse con un referendum nei dipartimenti di Beni e Cochabamba, il governo si è proposto di realizzare la consultazione, ma includendo gli indigeni cocaleri fuori del TIPNIS. Alcuni discutono che i cocaleri siano veri indigeni ma ha più senso criticare che siano consultati essendo esterni al territorio indigeno e perché danneggia la plurinazionalità, l’autonomia indigena, e il Vivere Bene.
È discutibile anche la forma come viene fatta la consultazione. È fatta dal governo, interessato alla costruzione, che la presenta come strada ecologica e sinonimo di salute, sviluppo ed educazione che non ci sarebbero nel caso in cui non fosse approvata. Si dice che sarebbe anche una strada ecologica, e non si menziona ciò che sa la maggioranza delle comunità del TIPNIS, che già hanno marciato contro la sua costruzione: la strada significa perdere i propri territori di fronte all’avanzamento delle piantagioni di coca. Questo avanzamento è molto visibile nelle foto satellitari e avviene al ritmo di un ettaro e mezzo per famiglia all’anno, secondo degli studi.
Nella consultazione, realizzata in riunioni con poca assistenza e con consensi interpretati da funzionari di ministeri statali, inoltre, viene presentata la capziosa interpretazione governativa della legge che dichiara la “intangibilità”: significherebbe che non ci sarà “sviluppo” né attività economiche che oggi integrano le necessità di molti indigeni. Di fatto sono state sospese attività turistiche, lavori ambientali e progetti economici su piccola scala nelle comunità che hanno marciato contro la strada. Il governo ha anche dichiarato che si tratta di un’area petrolifera che sarebbe sfruttata e che sta per essere studiata.
Prima di iniziare la consultazione un potente ministro ha anche suggerito che si potrebbero visitate varie volte le comunità, nel caso in cui inizialmente si opponessero all’opera. E ha parlato della costruzione di una base militare ecologica. In ciò che potrebbe essere una critica che va anche contro i meccanismi di consultazione dell’ONU, bisognerebbe denunciare che anche questo tipo di consultazioni sono invasive e non contemplano la possibilità che certe forme di vita (“civilizzazioni” nello spirito che ha coniato il termine plurinazionale), preferiscano non essere consultate né entrare nel gioco di domande statali o compensazioni di imprese.
Nella consultazione, sembra essere possibile solo un sì alla costruzione della strada Villa Tunari-San Ignacio de Mojos. Lo Stato Plurinazionale oggi è violenza statale attraverso strumenti politici, economici e culturali che può diventare un etnocidio. Nel protocollo della consultazione, si ascolta realmente solo la comunità per “accertare le necessità della comunità” con uno stato che sa porsi solo a livello di tutela.
Con l’argomento della lotta contro la disuguaglianza e dell’interesse delle maggioranze si distrugge la singolarità della minoranza. La guerra del TIPNIS così fa tornare indietro quanto ottenuto con il Patto di Unità. Oggi la decolonizzazione in Bolivia proviene dall’autonomia indigena del TIPNIS, nel rispetto della sua autodeterminazione, che è contro lo sviluppismo che cerca di abbracciare tutto.
Questo ha deciso la comunità di San Miguelito, circondata da comunità cocalere ma ferma nella sua filiazione alla sub-centrale del TIPNIS, il rifiuto della strada attraverso il centro del parco. Le comunità hanno anche deciso di bloccare la navigazione nei fiumi per impedire la consultazione di cui non hanno fiducia.
Così la Bolivia è lo scenario di due possibili plurinazionalità: una è quella dello stato, con la ricerca di una inclusione di tutti che non ha potuto mostrare alternative allo sviluppo capitalista, all’omogeneità del nazionalismo e al sequestro repubblicano della rappresentanza diretta delle comunità. L’altra forma di plurinazionalità è quella dei territori, attraverso l’autonomia e il Vivere Bene.
Al di là dell’anti-neoliberismo dei “governi progressisti”, che nonostante lo stato forte e la spesa sociale lascia tuttavia molto a desiderare circa il superamento di questo modello economico, la resistenza del TIPNIS si inquadra nelle lotte per ciò che è comune che si collegano con le lotte mapuche contro le imprese forestali, con le lotte nell’Amazzonia contro le grandi opere energetiche, con le lotte delle comunità contro le mega-miniere dal Messico alla Patagonia.
Per il nuovo potere “progressista” (di progresso capitalista, fino ad ora) queste lotte si presentano come divisorie, alleate dell’imperialismo (la presenza di ONG straniere sarebbe la prova di questo), “meramente” locali e contrarie all’interesse delle maggioranze. Contro la difesa del TIPNIS, l’ideologia della crescita economica ad ogni costo trova un nuovo Patto di Unità, ora sviluppista, con governi “popolari”, giudici, parlamenti liberali o nazionalisti, la sinistra moderna, mezzi di comunicazione egemonici, impresari ex separatisti e capitale multinazionale.
In minoranza e attaccati da tutti i lati, ma in resistenza, ascoltiamo queste voci indigene del TIPNIS che parlano e si mobilitano contro un modello che le fa scomparire.
15-08-2012
Lobo suelto!
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da: |
Salvador Schavelzon, “La plurinacionalidad en tiempos de consulta en el TIPNIS” pubblicato il 15-08-2012 in Lobo suelto!, su [http://anarquiacoronada.blogspot.com.br/2012/08/la-plurinacionalidad-en-tiempos-de.html], ultimo accesso 24-08-2012. |