Vincitore delle primarie organizzate dall’opposizione in Venezuela il 12 febbraio, Henrique Capriles sarà il candidato alle elezioni presidenziali di ottobre 2012 contro Hugo Chávez. Per sedurre gli elettori di sinistra, promette di imitare il «modello brasiliano». Un discorso che richiama quello di Mauricio Funes, eletto alla guida di El Salvador nel 2009.
di Hernando Calvo Ospina *
Nel porto di Acajutla, sulla costa del Pacifico, a ottantacinque chilometri a sud-ovest della capitale, San Salvador, si trova la fabbrica di stoccaggio di combustibile Schafik Handal, dal nome del defunto dirigente storico ed ex comandante della guerriglia salvadoregna, il Fronte Farabundo Martí di Liberazione Nazionale (Fmln). Nel 2006, una ventina di comuni governati da sindaci dell’Fmln, diventato un partito politico alla fine del conflitto armato degli anni ’80, hanno messo in comune i loro capitali e si sono associati alla compagnia petrolifera di stato venezuelana, Petróleos de Venezuela Sa (Pdvsa). Si tratta del primo accordo energetico non sottoscritto tra Stati. L’impianto è il più grande dell’America centrale: potrà fornire combustibili e lubrificanti meno cari agli altri paesi della regione, con grande scontento delle imprese petrolifere americane. Un dettaglio: al momento dell’inaugurazione dello stabilimento, il 19 maggio 2011, spiccava l’assenza del presidente Mauricio Funes, eletto alla guida dell’Fmln.
Al termine di dodici anni di guerra rivoluzionaria, e in virtù degli accordi di pace del 1992, l’Fmln ha smantellato la sua struttura militare. Riconosciuto come partito, stabilisce allora un primo obiettivo: le elezioni legislative del 1994. Mentre quadri e militanti mancano di tempo (ma anche di esperienza e denaro) per organizzarsi, la destra agita lo slogan: «Patria sì, comunismo no! El Salvador sarà la tomba dei rossi». L’estrema destra dell’Alleanza repubblicana nazionalista (Arena) ha la meglio, ma l’Fmln, con ventuno deputati, diventa la seconda forza politica del paese. La sfida più importante si presenta nel 2004, con le elezioni presidenziali, alle quali si candida Handal. La campagna mediatica orchestrata contro di lui lo condurrà alla sconfitta. Non si è forse raccontato che progettava di eliminare o tassare i trasferimenti di fondi (remesas) inviati dagli emigrati stabilitisi negli Stati uniti? Dal canto suo, Washington non va tanto per il sottile: se Handal viene eletto, annuncia, i seicentomila salvadoregni che godono dello status di residenti provvisori rischiano l’espulsione dal territorio americano. Panico nell’elettorato: come sopravvivrebbe il 70% delle famiglie salvadoregne senza quegli invii di fondi mensili, che rappresentano il 16% del prodotto interno lordo (Pil)? E dove potrebbero lavorare gli espulsi di ritorno al paese, quando il tasso di disoccupazione raggiunge già l’8%, e quello di precarietà del lavoro il 40%, principalmente tra i giovani? In un mare di ambiguità, menzogne e «intossicazioni», Antonio Saca (Arena) vince quindi a larga maggioranza. Dalla Cnn alla più alta carica Nel gennaio 2009, l’Fmln diventa comunque la prima forza politica del paese, con trentacinque deputati sugli ottantaquattro che siedono all’Assemblea. Non gli resta altro che vincere le elezioni presidenziali del marzo successivo. Ma con la morte di Handal, nel gennaio 2006, il partito ha perso il suo candidato carismatico. Fa allora appello a un famoso giornalista della televisione, ex corrispondente del canale Cable News Network (Cnn) in spagnolo, Mauricio Funes. Senza essere un militante, questi critica la gestione neoliberista della destra.
Quattro giorni prima del voto, i repubblicani Dana Rohrabacher e Cornelius Harvey McGillicuddy IV («Connie Mack»), avvertono: «Se l’Fmln vince domenica prossima, El Salvador diventerà rapidamente un satellite del Venezuela, della Russia e forse dell’Iran (1)». Il 15 marzo, tuttavia, il Fronte vince con il 51,3% dei voti e il 1 giugno comincia a governare. Ma la guerra tra Funes e il «suo» partito è già cominciata. Nel corso della campagna elettorale, il candidato si era circondato di un gruppo di consiglieri «pragmatici» – gli «amici di Mauricio» – non appartenenti all’Fmln. Quando il vice presidente Salvador Sánchez Cerén, un ex comandante guerrigliero, dichiara durante una visita a Cuba che il governo potrebbe prendere in considerazione la possibilità di associarsi con l’Alleanza bolivariana per le Americhe (Alba), il capo di stato si affretta a escludere questa ipotesi: «Almeno sotto il mio governo e durante il mio mandato, non ne faremo parte (2).»
Certo, Funes ha ristabilito le relazioni diplomatiche con Cuba, rotte cinquant’anni prima, ma la vicinanza politica resta debole. In compenso, dieci giorni dopo essere stato accolto a Washington da Barack Obama, l’8 marzo 2010, si affretterà a riconoscere il presidente honduregno Porfirio Lobo, uscito vincitore da elezioni illegittime organizzate dai golpisti che avevano rovesciato Manuel Zelaya (3). El Salvador è il solo paese latinoamericano ad aver inviato delle truppe in Iraq, dal 2003 al 2008, su richiesta di Washington – cosa che Funes, allora giornalista, criticava fermamente. Oggi invece, è proprio lui che le invia in Afghanistan. Ha cominciato con il sostenere che glielo imponesse la risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) dell’ottobre 2010. Ma, dopo che WikiLeaks ha rivelato che la decisione era stata presa tre mesi dopo la sua entrata in vigore, Funes ammette che a chiederglielo è stato il segretario di stato americano Hillary Clinton: «Abbiamo un’alleanza strategica con gli Stati uniti e collaboriamo mutualmente (4)». Non si può negare come negare che il potere attuale, sul piano sociale, ha governato il paese meglio di come abbia fatto la destra negli ultimi vent’anni.
Una «collaborazione» così stretta con l’amministrazione americana provoca comunque le dimissioni di Manuel Melgar, dirigente dell’Fmln e ministro della sicurezza pubblica. Funes replica che «certi settori della sinistra non si sono sufficientemente evoluti e vivono dentro ragnatele ideologiche (5)». Qualche giorno più tardi, tuttavia, deve ammettere che Melgar non era apprezzato da «alcuni settori politici» a Washington. Funes è, insieme alla costaricana Laura Chinchilla, uno dei due capi di stato della regione che non hanno partecipato, il 2 e 3 dicembre 2011, al primo summit della Comunità dei paesi dell’America latina e dei Caraibi (Celac), organismo che intende gestire gli affari continentali… escludendo gli Stati uniti (e il Canada) (6).
note:
* Giornalista.
(1) Bbc Mundo.com, 14 marzo 2009.
(2) Libre Pensamiento, Madrid, 9 dicembre 2009.
(3) Si legga Maurice Lemoine, «Braccio di ferro in Honduras», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2011.
(4) El Faro, San Salvador, 22 agosto 2011.
(5) ContraPunto.com.sv, San Salvador, 24 novembre 2011.
(6) Neanche il peruviano Ollanta Humala ci è andato, ma perché doveva far fronte a problemi locali. (Traduzione di Cri. Ce.)
http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Marzo-2012/pagina.php?cosa=1203lm24.01.html