La Guerra e l’Unità


Lucio Rivera

Appunti e proposte per una politica dal basso

Le elezioni e la guerra sono elementi classici della legittimità degli stati capitalisti. La politica messicana, coinvolta in una crisi economica, avanza a tutta velocità nonostante i tentativi di frenarla verso la sua decisiva congiuntura sessennale. Una possibile collisione dell’apparato politico-elettorale senza freni non è per nulla scartata. La classe dominante sa che il suo potere dipende in gran parte dalla “parvenza” di avere “tutto sotto controllo”. Le elezioni influiranno in modo diverso sulla Guerra, ma la situazione non cambierà su ciò che è sostanziale, sia quale sia il risultato. La strategia controinsurrezionale, l’altro “dispositivo” fondamentale, nonostante l’incubo di decine di migliaia di donne e uomini trucidati e scomparsi, continua a creare il necessario consenso per garantire una certa stabilità del regime.

L’accettazione del fatto che lo stato “abbia in mano la situazione”, equivale alla legittimazione di questo stato, che si erige come referente e interlocutore per la soluzione delle distinte problematiche. Dobbiamo rinunciare ad una visione della guerra come una lotta su grande scala tra “guardie e ladri” o come un machiavellico piano perfetto per imporre il terrore. Nonostante la massiccia partecipazione degli apparati repressivi e di spionaggio dell’imperialismo (come la CIA, la DEA, la FBI) la strategia si è venuta sviluppando in modo contraddittorio, con ogni tipo di fallimenti, ad un tale livello da compromettere la sicurezza della burocrazia messicana ed anche gringa, come nel caso di Vicentillo (figlio di Mayo Zambada), la cui cattura ha reso visibili i legami e le relazioni tra la DEA e il Cartello di Sinaloa.

La morte e la violenza, che colpiscono le maggioranze, ma che non escludono funzionari, burocrati, militari, narcos e poliziotti dal livello più basso fino alle alte sfere dell’alleanza mafiosa, si sono trasformate nella moneta con cui viene pagata la transizione verso uno stato para-militarizzato, nel quale la violenza è la paura, il linguaggio e il contenuto della politica di quelli in alto. Tutti i discorsi e i comportamenti dei politici in parlamento o alla televisione non sono altro che ridicole maschere che cadono in pezzi quando cercano di nascondere il vero senso della loro azione: il dominio della società attraverso la gestione della crisi e della guerra a favore di quelli in alto, contro quelle e quelli in basso. Per questo, nonostante il gruppo di Sicilia, il Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità, si sia presentato al tiranno con un atteggiamento di pace, la risposta è stata la stessa: la sparizione forzata e l’assassinio.

Per rendere chiaro ciò, l’alleanza di politici, banchieri, impresari, capimafia, generali e ricchi che ci governa non solo non ha una vera strategia, che sia una alternativa all’attuale situazione, ma è disperata, attraversata da ogni tipo di crisi, cui non trova soluzione. L’oligarchia, assuefatta alla violenza, non misura la portata delle proprie atrocità. Come posseduta, allo stesso modo dei giovani sicari, si sente di portare un’arma, uno strumento invincibile. E allo stesso modo anche noi, quelle e quelli in basso, ci convinciamo che il nostro nemico sia invincibile. La paura ci aiuta ad avere fiducia nel potere, cosa che lo rende più potente. Ma dietro all’orrore, in prospettiva storica, il nostro nemico è in crisi, è una tigre di carta e sta per piovere.

La militarizzazione e la para-militarizzazione, che finora danno un bilancio positivo al dominio capitalista, si sono scontrate con ostacoli e opposizioni di ogni tipo. Non si è riusciti a legalizzare lo stato di guerra (attraverso iniziative come la riforma della Legge sulla Sicurezza Nazionale) e dove è tuttavia consolidato, come a Monterrey o ad Acapulco, vediamo che importanti settori della cittadinanza e dei lavoratori, come nel caso dei vituperati maestri del Guerrero, si sono mobilitati per chiedere uno stop alle condizioni di insicurezza. Insieme al MPJD, il meritevole movimento contro la scomparsa forzata, ha ottenuto delle vittorie giuridiche che, nonostante ciò, appaiono come incomplete fintanto che l’incaricato di renderle esecutive è lo stesso stato terrorista.

Da quasi tutte le parti arrivano rilevanti dubbi sulla strategia della militarizzazione. Dall’ONU fino all’intellettualità accademica, al clero progressista e alle organizzazioni radicali. Ma i loro dubbi diretti allo stato, “attesi” o ignorati, non modificano sostanzialmente la situazione. Per esempio, a Ciudad Juárez la Polizia Federale è stata ritirata, cosa che ha fatto diminuire il tasso di uccisioni e di altri delitti. Il governo del Chihuahua si dice contento di questo. Certamente! La violenza non deve arrivare fino all’estremo da cui incomincia a creare scontento. La “normalizzazione” del capitalismo che viene proposta, tanto dalla destra come dalla “sinistra”, e che potrebbe implicare la smilitarizzazione del paese che viene identificata con il ritorno al tempo passato, sembra unire le volontà di tutte le classi, finalmente in ansia per la barbarie.

Questo orizzonte, una specie di “restaurazione”, abbraccia inoltre quasi ogni espressione della politica delle classi dominanti, anche se propongono la militarizzazione, come lo stesso Calderón. Nonostante la varietà di interessi che condividono questa prospettiva, anche se in modo discorsivo, molti di loro sono oppositori (come AMLO, Álvarez Icaza, e perfino i narco-cantanti di corrido), la soluzione finisce invariabilmente in mano allo stato. Gli si richiede, comunque sia, un po’ di “partecipazione cittadina”, ma non c’è dubbio che l’attore principale dello show continua ad essere lui. Per raggiungere questo obiettivo esistono molti mezzi, le elezioni, le carovane, i dialoghi, le marce, le leggi. Però, finora il bilancio delle richieste e delle petizioni fatte al governo è negativo per il popolo. La risposta è sempre la stessa: il dialogo delle pallottole.

Ma ancor più tragico di ciò che già stiamo vivendo sarebbe infatti che lo stato “restaurasse” il vecchio ordine, con o senza militari nelle strade. Immaginiamo: ci sarebbe una stupefazione generale nel contemplare lo spettacolo di governanti che da un momento all’altro ci presentano un Messico rinnovato, senza narco-violenza né insicurezza. Quando si pensa in modo fugace non sembra disprezzabile questa breve immagine, nonostante ciò sarebbe un punto estremo indignante per il popolo che ha sofferto tanto, che i suoi padroni, che dispongono del suo destino, diano una soluzione a tutto come quando finisce un gioco, firmando una qualsiasi carta o dando un qualsiasi ordine. Ma questa immagine è totalmente fuori della realtà. Nessun decreto, nessuna legge, nessuna azione che provenga dall’alto può mettere fine alla guerra, normalmente servono solo a due cose: come toppe e come legna per il fuoco.

Non abbiamo bisogno di chiudere gli occhi per vedere la soluzione alla guerra. Popoli e comunità in lungo e largo del paese propongono alternative autonome dal “qui” e da “ora”, come a Cheran, dove l’esercito si è rifiutato di proteggere il bosco e il popolo ha deciso autogovernandosi di risolvere i suoi propri problemi. Anche ad Ascensión, Chihuahua, dove la polizia locale è scomparsa, gli abitanti si sono scontrati con l’esercito e i para-militari organizzandosi per l’autodifesa. Dentro ad ogni abitato, ad ogni comunità, ad ogni città, esiste la potenzialità di una volontà creativa e spontanea, che ha bisogno di disarticolare, di “squarciare” anche solo parzialmente, la strategia che ci domina. L’orizzonte dell’autonomia di quelle e quelli in basso non è la restaurazione, il ritorno alla sofferenza silenziata delle maggioranze non può servici come nord nella nostra lotta.

La guerra controinsurrezionale travestita da guerra contro il narcotraffico, senza dubbio, è un problema fondamentale, però non significherebbe nulla, di fatto non esisterebbe, se non fosse per sostenere e riprodurre le relazioni dello stato messicano e del capitalismo dipendente, ambedue in crisi. Il supersfruttamento, il saccheggio, la distruzione e la privatizzazione delle risorse naturali, l’emarginazione, eccetera, ecc.: questi problemi e molti altri sono intimamente legati alle oligarchie, nazionali e straniere, e ai loro corpi poliziesco-militari. I tagliaboschi, il narcotraffico, le miniere, l’urbanizzazione, sono momenti distinti di uno stesso capitale multinazionale che è giusto alla radice del problema. I flussi astratti di numeri nelle borse valori, la rappresentazione più sacra del capitale, e i suoi “Consigli Esecutivi” imprenditoriali e multinazionali sono coloro che in ultima istanza dominano le azioni di presidenti e governatori, militari e para-militari, gringos e messicani.

Come dicevamo più sopra, ora con Mao Tse Tung, il nostro nemico, l’imperialismo, è una tigre di carta, sembra temibile, una bestia molto più potente di noi, ma al suo interno è di carta, per cui i venti e le piogge finiranno con il distruggerla. Ma “quando affermiamo che l’imperialismo nordamericano è una tigre di carta, stiamo parlando in termini strategici. Vista come un tutto, dobbiamo disprezzarla; ma riguardo ad ogni sua parte, dobbiamo prenderla molto sul serio. Possiede artigli e denti”. La strategia di para-militarizzazione, che è già stata “squarciata” dalle piogge e dai venti delle autonomie, conserva ben affilati i suoi artigli ed i suoi denti. Per vincerla, quantunque sia di carta, bisogna disarmarla. Qui abbiamo trovato la nostra domanda principale “Come disarmarla? Come annientarla?”. La risposta non la ha Mao Tse Tung, né nessun libro e/o tesi intellettuale.

Di fatto, oggi questa risposta nessuno non la ha. La questione della strategia, del Che fare per cambiare il mondo, è una domanda molte volte evasa e non sempre con una risposta, anche attraverso formule. Ci sono gruppi, collettivi, organizzazioni ed individui che vedono nell’autonomia, nel “qui” e “ora”, il miglior percorso per cambiare il mondo, altri credono che si possa lottare per la trasformazione della società con il partito delle classi rivoluzionarie. Senza dare importanza a queste distinzioni, l’imperialismo e la classe dominante, uniti in una profonda crisi e in modo disperato, danno zampate contro quelle e quelli che lottano, senza dare importanza al colore delle proprie bandiere, uniti con quellx più in basso, gli indigeni, lavoratori, donne di casa, studenti, popolo; per cercare di sopravvivere la tigre è disposta nella sua caduta a portare nell’abisso tutta l’umanità.

Nonostante la situazione di guerra noi, gruppi, collettivi, organizzazioni ed individui, continuiamo ad essere divisi. Anche se esistono numerosi gruppi della stessa corrente, la possibilità di giungere all’unità apparentemente non figura nelle liste delle priorità. Senza importare quale ipotesi strategica ciascuno persegua, è chiaro che con gli sforzi dispersi di quelle e quelli in basso non siamo riusciti ad organizzare su scala nazionale una vera difesa popolare contro le aggressioni del capitale. In certe limitate regioni e comunità ci sono esperienze uniche, come le giunte di buon governo dell’EZLN, o la Polizia Comunitaria della montagna del Guerrero, (ed altri importanti contesti degli sforzi popolari), ma anche questi gruppi e “squarci” da soli non riescono a fuoriuscire dalle contraddizioni del capitalismo, dalla guerra controinsurrezionale, dalla crisi ambientale, fino alla partecipazione al processo di produzione e circolazione commerciale.

La diversità di gruppi ed ideologie non è un male. Invece, il fatto che questi gruppi logorino le loro forze lottando contro i propri compagni, cercando in ogni momento la divergenza, il rancore storico ed il minimo pretesto per evitare di collaborare con gli altri gruppi e ideologie, rappresenta un enorme ostacolo che noi stessi abbiamo costruito. Qualsiasi sia la possibile risposta alla domanda strategica che ciascuno ha, l’istinto che ci unisce a quelle e quelli in basso, essendo noi coloro che fanno e disfanno, viviamo e moriamo il mondo, punta nella stessa direzione del sentimento di libertà che rifiuta il capitalismo ed il potere: Unità! Come proletari comuni, siamo in balia della crisi, della guerra, come Ribelli, di ogni colore, siamo contro uno stesso nemico.

Il nostro orizzonte, è che noi proletari, comuni e ribelli, di ogni colore, sconfiggiamo il nostro nemico, l’imperialismo, trasformando il mondo e la vita come decidiamo noi. In Messico la guerra controinsurrezionale è un artiglio della tigre che bisogna distruggere e dal quale bisogna difendersi. L’Unità sorge come strumento per affrontare la tigre e rafforzare Noi. Il Fronte Unito, nel quale le lotte del popolo si coordinano con spirito di cameratismo, è una forza organizzativa che favorisce l’autonomia dei gruppi e si attua sotto l’Assemblea democratica, dove prendere decisioni e dare esecuzione alle stesse si uniscono, esprimendo materialmente la possibilità di un organo di autogoverno dove le distinte ideologie e gruppi sono rappresentati. L’orizzonte del nostro cammino non può essere una esile “restaurazione” o la semplice “difesa” dei resti di un nostalgico stato-nazionale; la decisione, il coraggio, la fede di poter sconfiggere il nostro nemico la possiamo trovare solo nell’utopia della fine del capitalismo e nell’inizio del mondo nuovo.

Sia comunista, autonomista, socialista o libertaria, la risposta alla domanda su Che fare per cambiare il mondo,  il Fronte Unito rappresenta uno spazio per riprodurre queste idee e pratiche e per discutere le stesse nel modo più proficuo, con compiti e lavoro comune ci sarebbe un comune interesse a realizzarle nel modo migliore. Questo spirito di “camminare insieme” esiste in ogni luogo. Senza distinguere le bandiere, donne e uomini lo praticano quotidianamente nelle loro lotte. Questa che presento come una proposta è la mia ipotesi strategica, mia è la responsabilità di quello che scrivo, ma questo spirito lo condivido con coraggiose e coraggiosi compagni che conosco, e so con molti altri che ancora non conosco. Non si tratta di risolvere il mistero del Che fare, ma, oltre a continuare a farci domande, di passare a Fare l’unità (unità di azione) per giungere a condizioni più favorevoli per rispondere alla domanda sul Che fare, non è in un testo o in un saggio, ma nella pratica, nell’azione.

22-03-2012

Rebelión

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Lucio Rivera, “La Guerra y la Unidad” traducido para Rebelión por S., pubblicato il 22-03-2012 su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=146752&titular=la-guerra-y-la-unidad-], ultimo accesso 23-03-2012.

 

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