Danni collaterali


Pablo Rojas

 

Collaterale non è lo stesso di “accidentale” o “senza intenzione”, ma piuttosto “secondario”. Peggio: a nessuno gli importa. Ha lo stesso significato.

La peculiarità della guerra che il governo dice di aver intrapreso contro i gruppi delinquenziali, è che i suoi “danni collaterali” sono molto più alti dei risultati in termini poliziesco-militari ed anche molto più alti dei caduti di una o dell’altra fazione: poliziotti e criminali, buoni e cattivi, buonissimi e cattivissimi, nella retorica che riempie pagine e schermi. È la retorica della guerra, e a nessuno importa di coloro che muoiono “collateralmente”, anche se sono la maggioranza.

Dopo 35 mila morti, sono pochi coloro che si rifiutano di credere che questa guerra sia un fiasco e che avverrà di peggio. Ciò che si prevede è che la situazione peggiori, e che si moltiplichino i morti.

Quanti di questi 35 mila morti sono poliziotti o militari, e quanti narcotrafficanti? Se fossero stati poliziotti e militari, “la querra” già sarebbe stata persa e sarebbe uno scandalo come lo fu il Vietnam. Le forze federali hanno circa 40 mila uomini dispiegati nella guerra. Se fossero del “crimine organizzato”, francamente sarebbero dimezzati e le forze federali ed il governo andrebbero avanti tranquilli (o cercherebbero di uccidere gli altri 35 mila per stare sicuri).

Ma no, né l’una né l’altra cosa, poiché il maggior numero di morti, molto di più, lo ha messo la società. La gente di qua e di là, la maggioranza giovani, che rimarranno senza nome, senza un posto e con il marchio che il governo ha cercato di mettere a tutto ciò che muore nella sua guerra.

La guerra ha un inizio chiaro con lo sviluppo dell’Operazione Congiunta Michoacán alla fine del 2006, a solo dieci giorni dall’insediamento alla presidenza di Calderón. È la sua guerra. “Il governo mentì e vuole far pesare la guerra sulla società civile, come se questa l’avesse iniziata o la appoggiasse”, dice, da Reynosa, Isabel, una madre nubile ed attivista. Il governo ha iniziato una guerra che oggigiorno nessuno appoggia e che minaccia di distruggere il poco che rimane alla popolazione: la propria vita.

Tra gli ultimi mesi del 2006 ed i primi del 2007, il governo di Calderón portò l’esercito nelle strade di Michoacán, Baja California y Chihuahua. Le denunce sugli abusi e le violazioni ai propri diritti di centinaia di cittadini non gli hanno fatto battere le ciglia. Appena due mesi prima, come presidente eletto ma ancora non in carica, aveva accusato i maestri di Oaxaca di commettere “una grave violazione dei diritti umani” dei bambini (citazione del El Universal): commentò che “è una terribile violazione dei diritti umani lasciare i bambini senza lezioni”.

Come presidente eletto, era al corrente e appoggiò l’invio della Polizia Federale a Oaxaca per scontrarsi con migliaia di cittadini. Era l’ultimo mese di Fox come presidente.

Le “gravi violazioni dei diritti umani” che furono documentate dalle organizzazioni che li difendono, ed anche timidamente la CNDH, non hanno avuto eco. Furono minimizzate. Ciò che pubblicò Human Rights Watch in Messico fu oggetto di derisione, e fu ignorato, perché quando venne alla luce, si stava avvicinando l’epidemia di influenza. Indipendentemente da ciò che si possa pensare di queste organizzazioni, i casi erano perfettamente documentati. Tra i casi più importanti c’era quello della violenza clamorosa su tre minori di età, ed il sequestro di 36 persone da parte dell’esercito. “Indagavano” su una imboscata contro una unità militare.

Prima del 2006, le teste umane che rotolavano ovunque, i massacri di giovani, e le migliaia di morti erano sconosciuti. In tempi recenti la guerra, i  suoi uomini ed il suo nome, si erano mostrati solo contro le comunità del Chiapas. Da qui la guerra ed i suoi morti sono stati diffusi.

Con 35 mila morti, la guerra di Calderón non terminerà presto. Come terminerà, quando? Per il momento, non succederà.

Un sociologo della UAM dice che “dentro all’illogicità di questa guerra, c’è la presunzione governativa che più morti ci sono, meglio si vada. Però nessuno si rende conto di chi siano questi morti, per dio!, non è così difficile sapere che la maggior parte delle vittime viene dalla popolazione civile. La dimostrazione è chiara, dove sono i nomi di queste migliaia di migliaia di morti, dove è la loro scheda che indichi che facevano parte del crimine organizzato, per chi lavoravano, come mai … non c’è niente di questo”.

I danni collaterali hanno vari aspetti, il primo, è la paura.

Aspetto n. 1: la paura

La paura penetra in profondità, non uccide, ma, a volte, immobilizza.

Le case abbandonate, il cambiare le città, gli sfollati per una guerra che non hanno scelto, i posti di blocco, le armi, le prime pagine. Rodolfo, che vive a Monterrey e che oggi pensa di lasciare dice che “tutta la maledetta guerra di questo governo sta distruggendo le nostre città, e ciò che resta è la paura”.

La paura può tutto. Addio alla vita sociale, ad uscire di casa, a prendere una birra, a passeggiare per il tuo paese, a seminare tranquillo, a dormire tranquilla, a riunirti con i tuoi, ad organizzare la festa della comunità … A tutti i livelli, da coloro che minacciati nella regione tepehuana debbono fuggire, fino alla vita quotidiana sconvolta nelle sue più piccole espressioni:

Una signora di più o meno 85 anni vive a Cuernavaca da circa 50. È cresciuta e ha creduto nelle istituzioni. Esce con la sua macchina a comprare qualcosa. Un poliziotto le segnala l’altolà. È presa dalla paura. L’anziana pigia sull’accelleratore, e fugge. Questo è avere paura. Dell’ “autorità”. A lei non è successo niente. Un giovane va a Ciudad Juárez a parlare con altri giovani sulla violenza generalizzata. Ne parlano. Terminano il colloquio per accompagnare uno alla sua casa. L’immagine della signora di 85 anni a Cuernavaca diventa realtà. Poliziotti, è chiaro che sono in divisa, gli danno l’altolà. La loro pattuglia è lì ben visibile. Uno dei poliziotti fa scendere il giovane che è alla guida della macchina e prende il suo posto.
Conduce l’auto con gli altri tre giovani passeggeri; li porta in un vicolo: “Già vi hanno salvato le vostre madri, già le vostre madri hanno salvato tutto, figli di puttana”. Silenzio. Il poliziotto gli spiega: “Guardate vigliacchi, se voi morite qui, che succede? domani apparite come narcotrafficanti e nessuno viene ad indagare, affinché che ve la facciate sotto”.

Nessuno va ad indagare.

La cosa cattiva dei buoni del racconto è che sono inaffidabili. Nessuno gli crede, nessuno li appoggia e tutti ne hanno paura.

Quando su face book o sulla posta elettronica viene annunciato che ci sarà a Cuernavaca una nuova sparatoria, la gente non esce. I locali alla moda della città dell’eterna primavera sono stati chiusi uno ad
uno. Nessun funzionario di governo di nessun livello, nessun militare o capo della polizia, smentirà la notizia. Sono portatori di paura e, quando non lo sono, sono complici.

Un mezzo blindato della marina si apposta all’entrata di questa città. Puntano le loro armi su chi passa. Portano passamontagna. “Non sono coloro che trasgrediscono la legge che si coprono la faccia?”, pensa Jimena, una studentessa di storia.

Una giovane di Ciudad Juárez dice che “morire a causa di questa guerra è una stupidaggine”. Fa filtrare l’idea che è vero che ci sia una guerra. E finisce: “Non è una guerra contro la delinquenza, è una guerra contro la popolazione, contro noi, precisamente contro i giovani … Siamo stanchi di vivere con la paura”.

Bere un birra a Ciudad Juárez può essere mortale. E decidere di berla nella tua casa dell’Infonavit, con i tuoi amici, a Villas de Salvárcar o a Horizontes del Sur, o in tanti altri complessi residenziali, può essere peggio.

Eduardo, un tijuanense, dice che “un anno fa, quando cominciava il caos, in genere la gente di Tijuana vedeva di buon occhio che arrivassero i militari, poiché eravamo disperati, ma il rimedio è stato peggiore”.
La stessa cosa è accaduta a Juárez. Oggi, la società civile chiede che i militari se ne vadano dai loro centri abitati. Dalle loro case. Che fermino le loro atrocità, che li lascino in pace. Eduardo continua dicendo che “il governo e la stampa semplicemente non comprendono, e non comprendono perché non vivono qui”.
“Generalmente la stampa, i giornalisti che mai escono dal DF (Distretto Federale) pensano che siamo pazzi, come può essere – dicono – che facciamo manifestazioni affinché i militari ed i federali se ne vadano e non perché se ne vadano i narco?”. “Non è tanto difficile da intendere. Da quando è iniziata questa ‘guerra’ le vittime siamo stati noi, di solito la società e, se a qualcosa è servito, è stato per renderci conto che l’esercito e la polizia agiscono allo stesso modo dei supposti nemici dei nostri figli”. “Questa fesseria, che le morti e guerra, ci sono per non fare arrivare la droga ai nostri figli è insopportabile, cade a pezzi, è una imbecillità”.

Da quando il governo federale ha iniziato una operazione congiunta nel Michoacán, per poi portarla nella Bassa California e a Chihuahua, il terrore è cresciuto nella stessa proporzione delle violazioni dei diritti umani dell’esercito e della polizia federale. Laura, di Cuernavaca, interrompe: “Quando dicono ‘violazione dei diritti umani’ sembra un eufemismo, è più grave, bisogna dire ciò che è: botte, sequestri, uccisioni e violenze. Così, senza quanto si riferisce ai ‘diritti umani’ che successivamente viene usato per minimizzare ciò che sta succedendo”.

***

Letto su twitter:

Se ci sono stati 35 mila morti durante la “Guerra” contro le droghe e sono caduti 20 dei 30 “più ricercati”, quanti morti mancano?

35 mila morti. Mille dei quali, bambini, secondo l’ONU.

35 mila morti e non si offendono. Uno stupido calpesta una civetta e diventano matti.

Vai! quasi 35 mila morti nella guerra contro il crimine organizzato? Queste sono cattive notizie, ma secondo Calderón non bisogna dirle!!!

Se “non è già una guerra”, è una campagna di vaccinazioni?

***

Aspetto n. 2: La morte

Chi sono questi 35 mila morti? Un giornalista dice che “in Messico la morte non viene indagata”.

A chi risulta chi siano questi 35 mila morti e morte? Chi sono le loro madri, fratelli, spose? Quanti altri sono rimasti senza vita con queste morti, quante famiglie, comunità, paesi? I danni collaterali sembrano essere molto più gravi di quello che le pur incredibili cifre dicano.

La morte nelle guerre ha per lo meno due aspetti: quella di colui che muore, la morte individuale, tragica se avviene dove non devi stare (questo luogo è già di migliaia di chilometri quadrati), e la morte di popolazioni, di comunità e famiglie.

Trentacinquemila, 35 mila, 35.000, chi sa come si deve scrivere questo numero che sta aumentando giorno per giorno, affinché, in qualche modo, faccia notizia. Per il Pentagono, fino agli inizi del 2010, circa 5 mila soldati statunitensi erano morti nelle guerre dell’Irak e dell’Afganistan. Nell’evento che ha cambiato il modo di intendere la paura e la guerra, il famoso 9/11, a New York, 2 mila 973 persone sono morte, secondo dati del governo degli Stati Uniti. Di influenza H1N1 sono una decina. E qui, la guerra sembra non avere fine. La Guerra Sporca della dittatura in Argentina ha lasciato circa 30 mila dispersi che, oggi si sa, debbono essere morti. In Cile, la dittatura di Pinochet ha lasciato circa 3 mila morti e 30 mila torturati. Cifre che fanno tremare e che cambiarono governi, che fecero notizia, che indignarono, che cambiarono il modo di vedere aspetti del mondo in cui viviamo. Qui, il governo degli Stati Uniti fa le congratulazioni a Calderón, anche se avverte i  propri cittadini dal venire in questo accogliente paese. E passiamo al seguente tema… l’elezione nello stato del Messico.

Ciò che ricordano le morti è che ci sono dei vivi, “e che vivono in un vero stato di insicurezza, considerando l’aspetto economico e quello sociale”, dice lo scrittore Fernando Lobo. “I morti sono lì, ma ora mi
preoccuperei di coloro che rimangono; di coloro che continueranno a vivere questo clima di guerra a Reynosa, a Monterrey, ad Acapulco, a Cuernavaca, e non diciamo più a Juárez”. “E, anche se non ci piace, né se ci infervoriamo con teorie di complotti, lì c’è il risultato di Rapido e Violento”, che consiste nel trasferimento “controllato” di armi dagli Stati Uniti al Messico, operazione architettata dal governo di quel paese.

La cosa complica è che sembra che la guerra stia ad un punto di non ritorno. La palla di neve non è vicina a sciogliersi, così che le morti continueranno, rapide e violente.

Alle comunità contadine che già sono nella povertà, e dalle quali migliaia sono partiti per migrare, ora si aggiunge l’angoscia e la morte di stare nel Triangolo d’Oro, o nel circolo più oscuro, con tutto ciò che comporta il trasferimento di una caserma nella propria comunità.

Lo fanno sfollare. Chi occupa le sue tormentate terre?  Che effetti avrà a medio o lungo termine, non si sa con certezza, anche se si intuisce. Ma, a chi importa. Con la guerra le terre morte per il soffocamento economico vengono svendute.

I giornalisti della televisione dicono che non è precisa, che sono errori che ci sono in qualsiasi guerra. Già sono una decina di migliaia di errori. Sia, il peggio è quando il presidente dice che mai ha chiamato guerra la sua guerra. Allora rimane aria fritta che i danni collaterali talvolta non sono collaterali.

Ciò che rimane è che queste morti, in effetti,  interessano a pochi. Se sono oltraggiati, ancora meno. Erano narco, stavano in qualcosa, lo stesso argomento terrorizzante che è stato utilizzato quando si cercò di giustificare i femminicidi. C’è un disprezzo per i morti ed i loro familiari. Un disprezzo per la vita di quelle e quelli che continuano nel tentativo di sopravvivere in un paese come il Messico.

Ciò che sappiamo che avviene nelle città, alcune significative come Monterrey e Acapulco, è moltissimo se lo compariamo a ciò che sappiamo delle comunità contadine ed indigene, che situate nella sierra e nelle montagne mai faranno notizia. Per esempio, da anni nel Guerrero i contadini sono compagni della morte. Ed ora nel Tamaulipas, lo sfollamento degli abitanti del municipio di Mier avviene poiché sono rimasti presi dal “fuoco incrociato” tra buoni e cattivi. Dei 7 mila e 88 abitanti che aveva, quest’anno ne conta un 40 per cento in meno, circa 4 mila 768 abitanti (articolo di Reforma). Questa situazione è cominciata quando il governo federale ha inviato 3 mila membri dell’Esercito e della Marina. Ora è chiaro perché i caduti, gli sfollati, sono la popolazione civile.

Per così tanta morte qualsiasi persona avrebbe una indigestione. Per questo non è più una novità. Un meccanismo che ha a che vedere con la paura appanna la vista di coloro che sono testimoni e vittime di una messa in scena che ha inizio alla terza chiamata, ma non si sa di quanti atti sia fatta. Gli occhi non sopportano più la tragicommedia senza fine, senza intervallo, dove, inoltre, il pubblico è colui che si fa carido delle morti.

La paura e la morte hanno sfigurato e di nuovo mostrato ciò che si suppone che siamo. La guerra è reale, e la morte vicina. La paura le unisce, puoi non morire, ma nemmeno vivere.

Nonostante ciò, ci sono indizi di un’altra forma di danno collaterale, che può essere, per il momento, una uscita dal circolo guerra-paura-morte: l’indignazione e la rabbia.

Aspetto n. 3: Indignazione e rabbia

Paradossalmente, l’indignazione fa parte delle conseguenze di una campagna militare che attacca principalmente la popolazione, che si suppone dovrebbe essere protetta dalla forze federali. La nausea della gente è tale che questa indignazione, come diceva F, studente della UACJ di Juárez, può trasformarsi in organizzazione. È difficile organizzarsi pacificamente in un clima di guerra, ma ci sono dei tentativi.

Queste storie di indignazione e di lotta hanno bisogno di uscire alla luce, così come è necessario che escano le storie di decine di migliaia di morti, delle loro comunità e delle loro famiglie.

L’indignazione, da un lato, “impedirà che finiamo la giornata così tranquilli pensando che ci siano 35 mila delinquenti in meno, ma per poi svegliarci e pensare che ne mancherebbe un altro da uccidere per, per lo meno, pareggiare sul tabellone”, dice Sonia a cui hanno ucciso due cugini a Ciudad Juárez. L’indignazione può anche impedire di continuare a parlare al plurale quando si tratta di una guerra che un uomo ed il suo governo hanno deciso di intraprendere. L’indignazione farà sì “che non si tragga la conclusione che tutta questa guerra ed i suoi morti siano per salvare i nostri figli dalle droghe”, dice Sonia.

L’indignazione ed il coraggio potranno dare dei nomi ai morti, e far terminare il dibattito morale su droghe sì, o droghe no. Il punto non è mai stato lì, di fatto è andato scomparendo anche nei mezzi di comunicazione, come se la guerra  fosse senza causa, come se la società fosse intrappolata in una spirale insuperable, come se fosse una fatalità evidente. L’indignazione recupererà la storia recente e si vedrà che c’è un inizio chiaro e contundente di questo avvenimento e che chi la ha iniziata è responsabile di ciò che avviene.

***

Il commercio di stupefacenti è un affare altamente redditizio, fermarlo non sembra la priorità di nessun governo, come nemmeno quello di fermare il traffico di armi, o il traffico di persone. Affari vantaggiosi per coloro che ne sono implicati, soprattutto se i morti sono messi da coloro che non hanno benefici dall’affare, ma che ne sono vittime. In quasi tutti i casi giovani, giovani poveri, molti emigranti, persone che cercano un futuro migliore per la propria famiglia e comunità, che ne sono anche distrutte. Coloro che sono morti, mai hanno controllato il traffico di nulla; hanno trafficato con loro. Oggi le rotte del traffico di droghe, armi e persone hanno gli stessi percorsi. Non c’è chi li fermi, perché non c’è che vuole fermarli. In cambio, è stata scatenata una guerra dal e per il potere, una guerra tra potenti che attacca quegli stessi giovani che non hanno nulla e la società. C’è un prima ed un dopo. Sappiamo che i morti hanno un nome e che non avevano il potere; i morti erano poveri. Ai danni collaterali incomincia a cadere il collaterale.

Rebeldía, n° 77, 6 maggio 2011

 

 

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da
Pablo Rojas, “Daños Colaterales” traducido para Rebeldía por S., pubblicato il 06-05-2011 su [http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/04danoscolaterales.pdf], ultimo accesso 09-08-2011.

 

, ,

I commenti sono stati disattivati.