Dilma Rousseff sarà il prossimo presidente del Brasile, lanciato verso il tetto del mondo con enormi contraddizioni sociali


Rousseff e LulaLa candidata del Partido dos Trabalhadores alla successione di Lula ha battuto al ballottaggio con il 56% dei voti il candidato del centro-destra José Serra, l’astensione è stata solo del 21%.
Prima ministro dell’Energia e poi della
Casa Civil (coordinazione tra i ministeri) durante gli otto anni di governo Lula in cui il Brasile ha vissuto un impressionante crescita economica basata su un modello agroesportatore che ha approfondito le contraddizioni sociali. Rousseff sarà la prima presidente donna a guidare il più grande paese latinoamericano (190 milioni di abitanti), che stà emergendo come nuova potenza della regione.

“Brasile 1985. Dopo 21 anni di regime militare viene ristabilito l’ordine democratico. La difficile ricostruzione di istituzioni politiche stabili, con un sottofondo di inflazione galoppante e di recessione economica, occupa tutta la scena. Le ambizioni diplomatiche e i sogni di grandezza non sono all’ordine del giorno di questo paese-continente. Colpito fortemente dalla crisi del debito il paese appare, nonostante le sue dimensioni e le sue risorse, come “un paese che ha e continuerà ad avere un avvenire”, secondo un’opinione malintenzionata e  diffusa.
Due decenni dopo i dirigenti e i paesi membri del G7 propongono di includerlo nel club dei “paesi ricchi”. I banchieri lo collocano tra le grandi economie emergenti del BRIC assieme a Cina, India e Russia. Ed il suo PIL eguaglia quello degli ultimi due. Anche i ricercatori più affidabili prevedono che il Brasile sarà la quarta economia mondiale prima del 2050. Coscenti del ruolo ricoperto dal loro paese, i suoi dirigenti sostenuti da numerosi stati come Germania, Giappone o India, rivendicano un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. All’alba del XXI secolo sembra che il Brasile abbia cambiato status, è come se il gigante si fosse svegliato, e che l’eterno paese del futuro alla fine sia arrivato alle braccia aperte e accoglienti del presente.”3

Così inizia l’articolo di un ex ambasciatore francese a Brasilia che non fa che notare l’indiscussa ascesa del Brasile al rango di maggiore potenza del sudamerica e la sua pretesa di ricoprire un ruolo centrale nel nuovo equilibrio multipolare che emerge con il declino degli Stati Uniti. Accanto alla illustrazione delle caratteristiche della crescita brasiliana l’autore dedica però solo un rapido accenno alle drammatiche contraddizioni sociali vissute da un paese che è l’esempio perfetto dell’asservimento del progressismo e della socialdemocrazia agli interessi del capitale.

Il Brasile è il paese più grande dell’America latina, e con quasi 200 milioni di abitanti è il quinto del mondo. La sua economia è da sempre caratterizzata dalla produzione agricola destinata all’esportazione. Il suo stesso nome deriva dalla prima merce che gli europei esportavano da queste terre: il pau brasil, una pianta dalla quale si estrae un succo utilizzata per tingere i vestititi. Nel corso dei secoli il Brasile è rimasto un paese di grandi latifondi nei quali una popolazione schiava coltivava piante che sarebbero state servite sulle tavole europee: a partire dalla fine del Cinquecento la canna, quando in Europa lo zucchero era prezioso perché ancora non si estraeva dalla barbabietola. Per tagliare la canna i portoghesi, e poi i francesi e gli inglesi, deportarono in Brasile 3,5 milioni di africani, altri 2 morirono durante la traversata oceanica. Ancora oggi la canna viene coltivata da braccianti di fatto in schiavitù, spesso utilizzata per produrre etanolo: quella che viene presentata come alternativa sostenibile al petrolio e al carbone.

Dopo lo zucchero è arrivato il caffé, tutto il Brasile è stato trasformato in campi di caffè per rispondere alla sua domanda crescente nei paesi ricchi: tra il 1880 e il 1929 da solo rappresentava il 70% delle esportazioni brasiliane. La specializzazione nella produzione di uno o due prodotti è tipica dei paesi periferici del sistema economico mondiale: essi non sono in questa condizione perchè meno dotati di risorse o di spirito di iniziativa, vi sono costretti, a volte con la forza delle armi altre con quella del denaro giusto al posto giusto, dalle potenze che si trovano al centro del sistema. La posizione dei paesi periferici è di dipendenza rispetto ai paesi centrali: fin quando la loro domanda di caffè, o di banane o di soia, è alta nel paese che ha fatto di quella monocultura il fondamento della sua economia affluiscono soldi. Quando il suo prezzo crolla, o per un cambiamento dei consumi o per la comparsa di un nuovo produttore o per l’introduzione di un innovazione che diminuisce i costi, crolla anche tutta l’economia del paese periferico.
I paesi latinoamericani conoscono bene queste condizioni, dalla conquista europea più di cinquecento anni fa sono stati mantenuti in condizioni di dipendenza prima da Spagna e Portogallo, poi dall’Inghilterra e dalla prima guerra mondiale dagli Stati Uniti.
Anche il Brasile conosce bene l’altalena connessa alla dipendenza dalle monoculture. Le grandi ricchezze ricavate dall’esportazione del caffè durante la dittatura si sono volatilizzate prima ancora della sua fine, nel 1985. Ancora oggi, comunque il Brasile è il primo produttore mondiale di caffè.

La sua posizione nell’economia mondiale è rimasta quella di grande produttore di alimenti e altri prodotti agricoli: soia, zucchero, agrumi, succo d’arancia, carne bovina, mais, tabacco, cotone, cellulosa sono i principali. L’aumento di queste esportazioni è stato l’obiettivo principale degli ultimi due presidenti del paese, solo apparentemente così diversi tra loro, come nota Alain Rouquié, l’ex ambasciatore francese a Brasilia di cui abbiamo già citato l’articolo:

“Fernando Henrique Cardoso e Luiz Inacio Lula da Silva, hanno condotto dal 1995 politiche macroeconomiche di uguale ispirazione; andando oltre ai discorsi elettorali, entrambi hanno praticato una gestione rigorosa destinata a ridurre la vulnerabilità estera di un paese poco esportatore e fortemente indebitato. La crescita delle esportazioni è diventato l’obiettivo economico prioritario del presidente Lula, che non ha mai messo in dubbio l’apertura economica e le riforme istituzionali del suo predecessore”

Lula ha vinto le elezioni nel 2002 a capo del Partito dei Lavoratori che aveva trasformato da partito di massa in partito leggero, in grado di assicurarsi l’appoggio dei gruppi di interesse. In campagna elettorale promise una riforma agraria che non è mai partita, il Movimento dei contadini Sem Terra, che da venticinque anni occupa terre restituendole a chi le lavora, gli ha per questo tolto il sostegno assicuratogli nel 2002, in cambio ha visto il governo inasprire la repressione e lasciare liberi di operare gruppi paramilitari reclutati dai latifondisti.
In un contesto di concentrazione della terra, il 43% delle terre agricole è diviso in proprietà maggiori di 1000 mentre sono il 2,7% è occupato da quelle minori di 10 ettari, l’MST rappresenta una forza in conflitto con gli interessi dell’agroindustria. Un conflitto che s’è inasprito nel 2009 assieme alla sua repressione: tra gennaio e luglio sono stati registrati dalla Commissione Pastorale della Terra ben 366 episodi di scontro, in occasione dei quali si sono contati 12 assassini, 44 tentativi di omicidio, 22 minacce di morte e 6 episodi di tortura.4

L’MST è alle prese con una repressione giudiziaria e militare e che ha istituito come ulteriore arma un Commissione Parlamentare con il compito di investigarne l’operato e deleggittimarla come già fanno gli organi di disinformazione. Come spiega João Paulo Rodrigues, responsabile dell’ufficio dell’MST di San Paolo, in viaggio a Ginevra per denunciare l’attacco subito dalla propria organizzazione:
“Ci sono stati, come Sao Paulo o Río Grande del Sur, dove c’è una repressione militare da parte dello stato. In altri, come Pernambuco y Pará, il principale strumento repressivo sono le milizie armate di imprese private legate al commercio agricolo. Nelle ultimime settimane s’è verificato un altro fatto preoccupante, l’instituzione di una Commissione Parlamentare, proposta dal fronte agrario, i grandi latifondisti, i più arretrati, per mettere sotto inchiesta l’MST. (…) I nostri nemici passano all’offensiva. Sono i banchieri, i grandi latifondisti, quelli che difendono il commercio d’esportazione, il fronte agrario.”5

Accanto a timide ma scenografiche campagne contro la povertà, che lo hanno accreditato presso i disattenti, o ipocriti, progressisti occidentali Lula ha promosso la produzione agricola su vasta scala a danno dei contadini e della sovranità alimentare, ossia della capacità di un paese di soddisfare i bisogni alimentari basici della sua popolazione senza dipendere dalle importazioni. Se l’agricoltura familiare riceve 13 miliardi di reales (5,5 miliardi di euro) di finanziamenti pubblici, quella imprenditoriale ne riceve cinque volte tanto, 65 miliardi. Direte: è l’agricoltura su vasta scala a sfamare il Brasile. No, l’agricoltura familiare produce il 70% degli alimenti consumati in Brasile, 56% del latte, 67% dei fagioli, 89% della yucca, 70% dei polli e 75% delle cipolle). Direte: l’agricoltura su vasta scala crea posti di lavoro. No, il 75% della manodopera rurale lavora in famiglia e nel 2009 l’agroindustria ha registrato circa 270.000 licenziamenti.
La politica di Lula è stata chiara: favorire le imprese che producono per l’esportazione per far affluire soldi e investimenti nel paese. Una strategia economica che fa il bene dei ricchi brasiliani ma non delle classi popolari locali, spesso assiepate nelle favelas ai margini delle città, tra le quali 50 milioni di persone sotto la soglia di povertà.

Il peso economico del Brasile si inizia a percepire a livello politico internazionale dove assume sempre più ruoli di leadership che spesso lo vedono opposto agli Stati Uniti, di cui è evidente concorrente sul continente. È il caso dei negoziati del WTO aperti a Doha nel 2001 per trattare la liberalizzazione dei prezzi dei prodotti agricoli, Brasile, India e altri paesi esportatori vorrebbero che Stati Uniti e Unione Europea smettessero di tenere alte le barriere protezionistiche che servono a favorire la produzione agricola locale. Anche negli ultimi mesi abbiamo assistito il governo brasiliano assumere ruoli di primo piano in Sud America: fermamente contrari al golpe in Honduras hanno ospitano da due mesi e mezzo il presidente deposto nella loro ambasciata di Tegucigalpa, evidentemente vedono nel colpo di Stato una reazione degli Stati Uniti alla propria perdita di influenza in quello che considerano il loro giardino di casa, la competizione tra i due è aperta, ne abbiamo una prova anche nella chiara opposizione del Brasile alla concessione di sette basi colombiane all’esercito statunitense. Da parte sua l’ex-colonia portoghese ha aumentato la sua potenza offensiva, in un contesto latinoamericano di aumento delle spese militari, con l’acquisto dalla Francia di cinque sottomarini, di cui uno nucleare, 36 cacciabombardieri Rafaele e 50 elicotteri da trasporto militare per un totale di 18 miliardi di dollari.6

Insomma agli inizi del XXI secolo il Brasile si candida a ricoprire un ruolo egemonico in Sud America che sottrae spazio agli Stati Uniti, ma come in Cina o in India questo non risolve le drammatiche condizioni di sfruttamento, emarginazione e ineguaglianza che coinvolgono ancora la maggior parte della popolazione, alle cui proteste organizzate si risponde con la repressione.

3. Alain Rouquie, Un estado suramericano entre los grandes, Lapluma, 06-10-2009
4. Intelectuales y artistas del mundo se manifiestan en defensa del Movimiento de los Trabajadores rurales Sin Tierra La Revolución vive, Rebelión, 26-10-2009.
5. Sergio Ferrari, Entrevista a João Paulo Rodrigues, miembro de la dirección nacional del MST y responsable de la oficina en San Pablo.”Quieren criminalizarnos para frenar las movilizaciones sociales en Brasil”, Rebelión, 09-11-2009.
6. Raúl Zibechi, El definitivo adiós al patio trasero, La Jornada, 12-09-2009

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