Lo sfruttamento e l’esportazione di materie prime o beni comuni, sta permettendo ai governi della regione di attraversare la crisi globale senza grandi cataclismi interni, a cui si possono aggiungere le ampie politiche sociali. Si tralascia un ampio dibattito sul modello estrattivo e le sue conseguenze a medio termine… Articolo di Raúl Zibechi
Lo sfruttamento e l’esportazione di materie prime o beni comuni, sta permettendo ai governi della regione di attraversare la crisi globale senza grandi cataclismi interni, a cui si possono aggiungere le ampie politiche sociali. Si tralascia un ampio dibattito sul modello estrattivo e le sue conseguenze a medio termine.
Il governo di Evo Morales è riuscito ad accumulare, per la prima volta nella storia della Bolivia, riserve internazionali che superano i 9.000 milioni di dollari che il prossimo anno supereranno i 10.000 milioni. Negli ultimi 15 anni la Bolivia ha quasi duplicato le entrate pro capite passando da 896 dollari annuali a 1.683 dollari nel 2009, anche se queste cifre non contemplano l’inflazione. Ambedue gli aumenti si debbono all’impatto delle entrate che il paese riceve per le sue esportazioni.
Dodici anni fa, nel 1998, le esportazioni minerarie e petrolifere comportavano il 47 per cento delle esportazioni della Bolivia. Secondo un recente rapporto diffuso dal CEDLA (Centro Studi per lo Sviluppo Lavorativo ed Agricolo) oggi rappresentano l’ 80 per cento. Una tendenza molto differente a quella che si registra nella maggior parte dei paesi della regione, dove la norma è ritornare a rendere prioritarie la produzione e le esportazioni. Gli alti prezzi delle rendite alimentano questa tendenza che, nonostante ciò, fa presagire problemi per un prossimo futuro.
Neoliberalismo e neocolonialismo
Per estrattivismo intendiamo l’appropriazione dei beni comuni, in modo diretto o indiretto, per convertirli in mercanzie. Si tratta di una fase differente del modello neoliberale dopo la prima fase fissata sulle privatizzazioni, l’apertura commerciale e finanziaria e la de-regolazione del lavoro. Fa parte del processo di finanziarizzazione delle economie, possiamo sempre considerare l’estrattivismo come un processo più speculativo che produttivo: gli investimenti sono minimi e il ritorno del capitale è tanto veloce come succede nel sistema finanziario.
Nella produzione di soia, e negli altri settori dell’agricoltura, si affittano le terre e le macchine, in modo che l’investimento fisso è molto basso rispetto al capitale impegnato. Però il ritorno si produce solo con un raccolto, alla fine del quale il pool della semina può emigrare in qualsiasi altro luogo poiché – per l’appunto – non è fissato a nessuno spazio fisico. Qualcosa di simile succede con il sistema minerario, con la peculiarità che i profitti sono favolosi.
È un modello escludente perché non necessita di persone. Le persone, inoltre, sono un ostacolo. Mentre il modello basato sulla produzione industriale durante la sostituzione delle importazioni necessitava di lavoratori qualificati e di una grande quantità di operai ed impiegati nella produzione e nella distribuzione, e necessitava dei consumatori di queste merci, con il modello estrativista succede tutto il contrario: la meccanizzazione rende irrilevante il lavoro umano (il sistema minerario ha un sistema molto simile a quello delle piattaforme petrolifere con una alta rotazione di lavoratori specializzati che vivono molto lontani dal posto di lavoro). E non ci sono consumatori, poiché i prodotti primari sono esportati in paesi lontani per alimentare il bestiame o per essere lavorati.
È un modello di produrre merci che distrugge la natura. Il dirigente indigeno peruviano Alberto Pizango, nel primo anniversario del massacro di Bagua, il 5 giugno scorso, ha detto che “il processo di privatizzazione e concessione di lotti petroliferi, gassiferi, minerari e forestali, si è approfondito durante gli ultimi tre governi: Fujimori, Toledo e Alan García. Fujimori ha lasciato il 15 per cento dell’Amazzonia lottizzata e in concessione; Toledo è andato avanti di qualche punto in più e García è arrivato a privatizzare il 72 per cento del territorio amazzonico in lotti in concessione, consegnati al grande capitale multinazionale, molti dei quali si sovrappongono alle riserve territoriali dei popoli che sono in isolamento volontario”.
Povertà e controllo territoriale
L’estrazione impoverisce i paesi produttori ed arricchisce le multinazionali. Pagano imposte appena simboliche e in certe occasioni nessuna, poiché queste iniziative vengono installate in limbi giuridici come le zone franche, ed approfittano di tutti i vantaggi che i paesi proprietari dei queste ricchezze gli offrono.
Fa parte di quello che il geografo David Harvey ha definito come “accumulazione per saccheggio” o, se si preferisce, per furto o appropriazione. Anche quando si possa mettere in questione lo sviluppismo, l’estrattivismo non entra in nessuna di queste genealogie, poiché salta il processo di industrializzazione nei paesi in cui si installa. Il recente rapporto della Banca Mondiale, “Le risorse naturali in America Latina e nei Caraibi. Al di là della prosperità e della crisi?”, afferma che i paesi della regione “sono giunti ad essere tra i più prosperi del mondo grazie alla produzione di metalli preziosi, zucchero, caucciù, grano, caffè, rame e petrolio”.
Suona strano che il saccheggio coloniale sia letto in questo modo da una istituzione che pretende di orientare le politiche nazionali. Inoltre, assicura che “le esportazioni di beni primari hanno sempre attivato le economie della regione, riempiendo le casse dei governi”, e che l’America Latina “può registrare significativi benefici essendo la miniera ed il granaio” delle economie centrali. Quasi un insulto.
Per esempio, omette la crescente militarizzazione di intere aree per allontanare la popolazione molesta per questo tipo di accumulazione, che ha nella guerra colombiana la sua maggiore espressione. I territori della guerra, come dimostrano vari studi, sono esattamente quelli dove le multinazionali hanno messo gli occhi per appropriarsi dei beni comuni. Parallelamente, l’agro-negozio si appropria di milioni di ettari sfollando la popolazione contadina produttrice di alimenti, per cui la sicurezza alimentare delle nazioni si debilita.
Di conseguenza questo modello genera povertà ed esclusione. L’economista argentino Claudio Katz ha ricordato uno studio del CEPAL che afferma che in Argentina il 10% più ricco ha una entrata pro capite maggiore dello stesso settore nei paesi anglosassoni, mentre la popolazione con minori entrate è venti volte più povera degli strati più bassi dei paesi sviluppati.
Dibattito urgente
Questa tappa del modello neoliberale viene portata avanti in buona misura da governi progressisti e di sinistra. Dal lato di coloro che difendono le monocoltivazioni, il sistema minerario e l’estrazione del petrolio, si possono portare argomenti validi per stabilire un dibattito realista sui problemi e i vantaggi del modello estrattivista. Queste iniziative assicurano un flusso di cassa agli stati per poter adempiere ai propri obblighi, tra i quali risaltano il pagamento mensile dei salari e gli assegni sociali per i più poveri. Si potrebbe, inoltre, argomentare che un certo livello di estrattivismo è un “male necessario” per accumulare le eccedenze che permettano di fare un salto industrialista.
Il rapporto del CEDLA sulla Bolivia segnala per lo meno tre debolezze riguardanti questo modello: la volatilità delle entrate fiscali per l’instabilità dei prezzi internazionali delle merci; la fragilità nell’effettuazione della spesa poiché “l’eventuale caduta di queste entrate riguarda la realizzazione di progetti strategici”; e alla fine che “il crescente sfruttamento delle risorse non rinnovabili richiede forti investimenti per cui i governi decidono di negoziare debiti esteri per sostenere questi investimenti”.
Un problema supplementare è che ancora non esistono attori sociali e politici potenti che possano fare pressione per andare più in là dell’estrattivismo. Durante la fase delle privatizzazioni esistevano soggetti che avrebbero potuto resistere a quelle, in particolare i sindacati statali. Ora questi soggetti non esistono, debbono essere costruiti in una situazione molto complessa: predomina un discorso statale “progressista” che giustifica l’estrattivismo, ma la maggior parte della popolazione non può “vedere” il modello le cui iniziative sono in aree rurali lontane dalle grandi città.
Come minimo, sarebbe auspicabile che si installasse un dibattito pubblico sul tema che non si riduca alla percentuale di imposte che debbono pagare le imprese. Qualcosa è andato avanti sul tema, soprattutto sul lato ambientale. Ma la matassa è lontana dallo sbrogliarsi: il nodo della questione è come passare dall’estrazione alla produzione, non solo aggiungendo qualcosa del valore aggregato (il male minore) ma stabilendo regole per una crescita autonoma dei prezzi internazionali, così capricciosi nei loro esplosivi aumenti come saccheggiatori nei disastri.
29-10-2010
Raúl Zibechi, giornalista uruguayano, è docente e ricercatore nella Multiversidad Franciscana de América Latina, e consigliere di vari collettivi sociali.
Fonte: http://alainet.org/active/41887
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da |
Raúl Zibechi, “Pan para hoy, incertidumbre mañana” traducido para Rebelión por S., pubblicato il 29-10-2010 su [http://www.rebelion.org/noticia.php?id=115680], ultimo accesso 29-10-2010. |