Brasile, dai giovani iracondi ai nuovi ribelli


Angel Calle Collado

Sono tornati, si sono rinnovati e cercano di cambiare la politica attraverso il politico. Ma che relazione hanno con le forme classiche del fare politica? Che ruolo assegniamo ad attori come il Black Block? Quale è il potenziale per un reale cambiamento di questi nuovi soggetti politici?

Brasile. L’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro ha dedicato il suo libro Los dilemas de América Latina (I dilemmi dell’America Latina, ndt) ai “giovani iracondi” che apparvero negli anni settanta, con due apporti radicali nel campo della politica. Il primo, contestare la stessa sinistra, ma non per difendere il sistema, ma per combatterlo più efficacemente. Il secondo, che queste nuove nidiate rivoluzionarie appresero ad essere in disaccordo e a stare insieme. Il recente ciclo di proteste in varie città del Brasile evidenzia che i “giovani iracondi” sono tornati, rinnovati, questo sì.

Il contesto è differente, è bene certo. È caduto il muro di Berlino e sono emersi collegamenti sociali che internet facilita su scala mondiale. In Brasile la sinistra è arrivata al potere istituzionale, e ha cambiato, a base di programmi assistenzialisti, significativi scenari come l’estrema povertà. Ma ha anche finito con lo scambiare “emancipazione” con “inserimento” nell’ambito della globalizzazione neoliberista.

Il Brasile potrà giungere ad essere una “potenza geopolitica”, come afferma l’ex presidente Lula, ma lo farà senza rivedere alcune subordinazioni interne ed esterne. Le elite nazionali consolidano il proprio potere attraverso il credito pubblico della Banca Nazionale di Sviluppo (BNDES) e le infrastrutture (strade, condotte, porti, dighe, eccetera) costruite per rafforzare la creazione di grandi gruppi industriali (alimentazione, petrolchimica, metallurgia, telecomunicazioni) ed esportatori di materie prime (soia, petrolio), che consolidano la loro egemonia in America Latina. Ma ciò non si ripercuote nel benessere della classe lavoratrice, nei suoi salari o diritti sociali, né questa partecipa o si identifica con le politiche espansioniste, il suo accesso ad un maggior consumo cresce anche a costo dell’indebitamento delle famiglie e del blocco di servizi pubblici come salute ed educazione.

Come in quasi tutta l’America Latina, l’estrattivismo si impone come motore della politica energetica e agroesportatrice, ma dipendente dalle necessità materiali di paesi come la Cina, il consumo di carne dei paesi industrializzati che chiedono soia e pascoli per il loro bestiame o il biodiesel come fonte di riserva internazionale di fronte all’irrimediabile svuotamento dei pozzi petroliferi. A questo aggiungiamo il peso che il pagamento dei debiti interni ed esteri ha in paesi come il Brasile, superiore al 40 per cento del proprio bilancio federale.

Non è strano, pertanto, che i (nuovi) giovani iracondi contestino anche il ruolo del nucleo dirigente del Partito del Lavoro (PT) come fermo alleato di queste elite politico-economiche, che, unito ai frequenti casi di corruzione che colpiscono le alte cariche della nazione, fa sì che lo scontento cerchi nuove vie di canalizzazione superando il ciclo politico che aveva fatto irruzione in Brasile nel decennio degli ottanta. Parlano di “democrazia reale”, come il 15M nello stato spagnolo, e non la circoscrivono all’elezione di rappresentanti nei parlamenti o in un determinato partito. La democrazia è e si conquista in molti luoghi.

Il fenomeno mediatico di Mídia Ninja (narrativa indipendente, giornalismo e azione) è molto illustrativo: “giornalismo cittadino” per “difendere la democrazia”. Ma anche le forme di organizzazione della protesta, come il Movimento Passe Livre (Passaggio Gratuito, ndt), che in ciascuna città sostiene il funzionamento “orizzontale, autonomo, indipendente e apartitico”. Attraverso la campagna “Dov’è Amarildo?” si indagano e si accusano i differenti governi e i responsabili della polizia per tutti gli “scomparsi della democrazia”, come il caso di Amarildo nella favela di Rocinha, a Rio de Janeiro.

I tre gridi dei giovani brasiliani

La successione di manifestazioni popolari che nel 2013  ha avuto luogo in Brasile non rappresenta solo un ciclo di proteste, di richieste concrete e di azioni nelle strade. C’è tutta una rivoluzione nelle forme di fare ed intendere la politica, negli stessi rapporti tra organizzazioni politiche e cittadinanza. Si tratta di un ciclo di mobilitazioni più ampio. Sono tre gridi che si sovrappongono, con connessioni con altre voci provenienti dall’America Latina e dal resto del mondo.

In primo luogo appare, con echi globali, il grido di dignità, di diritti sociali e (auto)governo in una società e in alcune (mega)città che aumentano le dinamiche di disuguaglianza ed esclusione. Forse gli zapatisti sono quelli che simbolizzano meglio questo grido con il loro motto “si cercano i ribelli”, che ha eco in molte delle manifestazioni globali del XXI secolo. In Brasile abbiamo il grido degli esclusi, che ogni settembre convoca (quest’anno con più ripercussione sociale) chi non partecipa alla torta del Brasile “potenza”, o non è d’accordo sulla costruzione di questa “potenza neoliberista”. Anche le importanti manifestazioni dei maestri che difendevano la scuola pubblica, come per esempio, le circa 50 mila persone che nella città di Rio hanno appoggiato il 7 ottobre i professori in difesa di una educazione pubblica.

Questo grido è condiviso con il grido per il diritto al territorio, più presente in altri paesi. Il recente caso più significativo lo abbiamo in Colombia e le proteste contadine di agosto e settembre 2013, che hanno paralizzato il paese per chiedere, tra le altre questioni, la revisione del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti e la costituzione di zone di riserva contadina, orientate verso la sovranità alimentare e i sistemi agroalimentari locali.

Negli ultimi decenni assistiamo all’apice dei movimenti di base socio-comunitaria, come gli stessi zapatisti, alla forza di movimenti “senza terra” o di agricoltori familiari che fanno parte di Via Campesina, o delle zone indigene di autogoverno conquistate in Bolivia, Colombia o Venezuela. Ma il territorio è anche la città, che deve democratizzarsi invece di essere il centro permanente di esclusione. E da lì che “tariffa zero” è più di una protesta sui trasporti pubblici da trasformare, come quelli e quelle affermano, che “il Movimento Passe Livre deve favorire la discussione su aspetti urbani, come la crescita disordinata delle metropoli,  la relazione tra città ed ambiente, la speculazione immobiliare e la relazione tra droghe, violenza e disuguaglianza sociale”.

Alla fine, e qui entrano in pieno le “nuove nidiate”, attualmente più ribelli che rivoluzionarie, il diritto di decidere sulle questioni che ci colpiscono trova risonanza tra i giovani abituati a parole come “elezione” o “libertà”, che con le nuove tecnologie hanno la possibilità di costruire reti di affinità senza organi centrali in mezzo, e che stanno ascoltando queste voci in altre parti del mondo.

È il grido della radicalizzazione della democrazia, che attraversa anche gli altri due gridi (per esempio, nelle richieste di autogoverno, gestione democratica della città, conquista di diritti basilari, di autogestione ambientale di territori e beni naturali, eccetera), e che oggi apre la strada alle proteste attraverso i nuovi movimenti globali, esemplificati nel citato 15M spagnolo, nelle rivolte islandesi della cittadinanza di fronte agli aggiustamenti neoliberisti, nel YoSoy132 in Messico, nell’emergere di partiti su base assembleare come il Movimento 5 Stelle in Italia, e il Y’en a marre (¡Ya basta!) in Senegal.

Al di là delle proteste, questi nuovi movimenti globali sono la base dei “nuovi ribelli”, insieme a reti più classiche che parlano con enfasi della costruzione di altre società. Per questo parlano a favore di andare ad occupare le strade, dei mezzi di comunicazione, dei modi di produzione, delle finanze solidali, dei mercati locali (agroecologici), eccetera. I nuovi ribelli sono protagonisti di fenomeni meno visibili, ma mettono in evidenza il gusto della diversità, della rivoluzione “dal basso”,  attraverso il politico (più quotidiano) e il protagonismo sociale. In questo assomigliano ai “giovani iracondi” di una volta e attuali. E, oggigiorno, si differenziano in un minor orientamento partitico-avanguardista e in una minore presenza di rappresentanti politici o simbolici, che hanno sostenuto, a partire dal decennio dei sessanta, figure come il Che Guevara, la stessa rivoluzione cubana o le insurrezioni fochiste dei movimenti guerriglieri in America Latina.

Così i giovani iracondi sono tornati, si sono rinnovati e cercano di cambiare la politica (il potere istituito) attraverso il politico (il sociale, il potere esercitato nel quotidiano). Ma fino a che punto sono “globali” nella loro lotta? Che relazione hanno, in Brasile, con le forme classiche del fare politica? Che ruolo assegniamo ad attori come il cosiddetto Black Block in questo ciclo di mobilitazioni? Quale è il potenziale per un reale cambiamento di questi nuovi soggetti politici?

Dieci tesi

1. I nuovi giovani iracondi fanno parte dei “nuovi movimenti globali”.

Le caratteristiche che ha enunciato Darcy Ribeiro sono oggi applicabili a recenti fenomeni come il 15M nello Stato Spagnolo, gli “indignati” turchi o le convocazioni sorte dal YoSoy132 in Messico. Il protagonismo sociale nelle strade (prima di qualsiasi bandiera) è presente in tutti questi paesi. I ribelli si cercano e camminano chiedendo, dicono gli zapatisti. Per questo, questi giovani, in collaborazione con gli oppositori della democrazia autoritaria e delle trasformazioni da parte dei partiti verticali, si cercano per intensificare le richieste sociali attraverso una radicalizzazione della democrazia, visibile nelle sue forme di organizzazione (estremamente orizzontali, assembleari, evitando possibilmente rappresentanti) e nelle sue proposte per chiedere una democratizzazione delle relazioni sociali nel loro insieme.

Questi nuovi movimenti diventano globali giacché: recuperano sfide che hanno a che vedere con il sistema nel suo insieme, essendo la radicalizzazione della democrazia il loro substrato e la loro espressione conseguente; hanno una vocazione planetaria nelle loro forme di espressione, nelle loro critiche ambientaliste, nell’internazionalismo delle loro lotte; costruiscono con facilità lotte globali a partire da precise richieste che hanno a che vedere con necessità basilari della popolazione: educazione e sanità pubblica, sicurezza e sovranità alimentare, diritto di espressione politica, critica dell’autoritarismo di governi, polizia e mezzi di comunicazione.

2. Il Brasile inizia un proprio ciclo politico, che chiuderà il ciclo nato negli anni ottanta dalle sinistre più classiche.

Le proteste in Brasile si nutrono del presente. Esiste una finestra politica che ispira le proteste, e che continuerà ad essere aperta nei prossimi anni, riguardo all’imposizione di investimenti relativi alla Coppa di calcio 2014 e alle Olimpiadi del 2016. Detti investimenti sono lontani dall’affrontare le disuguaglianze sociali. Ma di più, le rafforzano. Da un lato, la speculazione immobiliare e il ridisegno della città non favoriscono i più poveri, che devono cercare nuove periferie, nuove favelas, come nel caso di Rio de Janeiro. Dall’altro lato, distolgono i fondi dal sociale verso la costruzione di un “marchio” Brasile, per il quale si richiede anche un ordinamento territoriale, poliziesco se è necessario, come i processi di “pacificazione” delle favelas, che renda possibile lanciare questo marchio simbolico di “paese potenza” che nuota nell’abbondanza e non nella disuguaglianza.

Però ci sono altre ragioni che hanno a che vedere più con un passato recente. Giovani e non tanto giovani sentono che un ciclo politico nato negli anni ottanta ha raggiunto il suo apice. La fine della dittatura si è prodotta con l’aiuto del Partito dei Lavoratori (PT), della Centrale Unica dei Lavoratori (CUT), del Movimento Sem Terra (MST) e di altri attori. La bandiera dell’emancipazione incomincia a non essere tanto presente nei primi due protagonisti. Le politiche di Lula prima, e di Dilma dopo, sono centrate su una gestione migliorata, con la creazione di programmi sociali congiunturali contro la fame e la povertà, invece di modificare le strutture che riproducono suddetta fame e suddetta povertà.

Si tratta di un inserimento come “potenza” attraverso “campioni mondiali”, imprese multinazionali e una presenza strategica nei paesi confinanti o in Africa, nella lega della globalizzazione neoliberista. Non c’è critica (eccesiva) su questo progetto politico intorno al PT, che negli ultimi anni si è trasformato in questo modo. Le proteste in Brasile, allora, presuppongono una contestazione di queste pratiche e una ricerca di cambiamento del ciclo politico: sono un autentico “SaoPaulaço”.  Un esempio simile e inauguratore di questa critica di fronte al neoliberismo in America Latina è stato il “caracazo” del 1989, al quale sarebbero seguite altre proteste che già in pieno XXI secolo hanno cacciato presidenti in Argentina o in Ecuador. Il Brasile riattualizza, attraverso le sue dinamiche interne, quel “caracazo”: c’è un progetto che non è popolare e non è legittimato socialmente. Nonostante ciò, la protesta brasiliana, al contrario della messicana o della spagnola, non è segnata (ancora) dal “che se ne vadano tutti”, nello stile dei cacerolazos argentini del 2001. La critica e le proposte, come segno distintivo del Brasile, è più articolata, meno proclive ad una “guerra di guerriglie”, ad una sfida e ad una messa in questione più ampia delle autorità governative. Tale potrebbe essere il caso della protesta nelle città e nei paesi spagnoli, segnati dalle culture politiche locali, come il nazionalismo periferico, l’anarchismo, le correnti libertarie o la credibilità nelle istituzioni più vicine e non in quelle lontane come l’Unione Europea, oggi ostaggio dell’elite finanziaria neoliberista.

 3. Il Black Block costituisce uno strumento di azione che si trasferisce da altre proteste, ma non costituisce il cuore di queste nuove “nidiate rivoluzionarie”.

Effettivamente, nelle recenti protesti, c’è stata mediaticamente una sovrarappresentazione dei gruppi che si autonominano Black Block; in parte, per la necessità delle elite di fare apparire gli “iracondi” come creatori di caos, nonostante che la la violenza sia sempre stata “simbolica” (oggetti, non persone). Lo stesso è avvenuto negli incontri “antiglobalizzazione” vissuti dalla fine dei novanta, particolarmente dalle proteste del 1999 di fronte all’Organizzazione Mondiale del Commercio, a Seattle, Stati Uniti. E in parte anche, per la novità e l’effervescenza manifestata dai suoi sostenitori.

Nonostante ciò, particolarità brasiliana, i seguaci del Black Block hanno dichiarato di identificarsi di più con tattiche di protesta autonoma e d’azione sui simboli capitalisti, che con identità che li farebbero eredi di tradizioni di autonomia politica, come avviene nella vecchia Europa. Queste tradizioni di autonomia politica o sociale riscattano spazi di socializzazione e proposte ideologiche provenienti dall’anarchismo in Spagna o dall’autonomia operaia in Italia, che cercano di fondare altri mondi attraverso pratiche di libertà individuale, ma prima di tutto di cooperazione sociale, il cosiddetto “mutuo soccorso”.

Il Black Block europeo è sempre stato vicino, generalmente, a queste proposte sociali nei suoi discorsi quando hanno organizzato le loro proteste “simboliche” in chiave di attacco alle banche e ai centri commerciali. Gruppi anarchici, centri sociali occupati o collettivi di autogestione operaia sono referenti significativi nei paesi mediterranei o in Germania. Questo li distanzia, a sua volta in questi stessi paesi, da altre correnti di autonomia, come le esperienze di anarcosindacalismo (più rivolte a costruire “potere popolare” a livello sociale) o le iniziative di democrazia libertaria (dove la democrazia diretta o più radicale si fa presente come segno di identità delle loro proposte di trasformazione socioculturale). In questo senso, il 15M nello stato spagnolo beve più da queste correnti libertarie che dall’anarchismo classico.

Se il Black Block ha accaparrato gli sguardi, ci sono altri spazi più rilevanti per intendere l’esplosione di questo ciclo di proteste. Lo scontento tra la popolazione non ha saputo canalizzarsi attraverso i “vecchi” strumenti. Allora sono tornati a vedersi discorsi e scene già interpretati da questi giovani (e non tanto giovani) nelle convocazioni Occupy, che hanno avuto ripercussione in diverse città brasiliane. Senza dubbio è stato il Movimento Passe Livre quello che ha suscitato le richieste e le condizioni organizzative della protesta, a seguito del successo delle sue rivendicazioni in città come Porto Alegre e, certamente, della contestata repressione a San Paolo.

 4. Lo scontento è globale, non congiunturale: il Brasile è un paese emergente in cui non emergono né la democrazia né i diritti sociali.

Quando mi sono accinto ad intervistare i protagonisti di queste proteste sono stati molti altri gli spazi menzionati che fanno parte dello scontento. Ora i movimenti per la casa, come in Spagna V de Vivienda (C di Casa, ndt) o successivamente la Piattaforma dei Danneggiati dall’Ipoteca, hanno aiutato a creare il clima di perdita di diritti sociali che sono germogliati nel 15M. Le differenze tra i paesi sono ovvie. Nei paesi centrali si tratta di preservare uno stato di benessere e rendere possibili altri modi di democrazia, dato il crescente autoritarismo delle elite neoliberiste. In Brasile si tratta di costruire diritti quando il paese è orientato verso la costruzione delle vetrine della Coppa del Mondo e delle successive Olimpiadi. E quando in democrazia i morti superano le cifre stesse degli scontri armati di una guerra come quella della Libia, per esempio.

Ma anche differenti città hanno offerto differenti supporti. Così a Rio de Janeiro le proteste di fronte al governatore Cabral o, anche in altre città di fronte alle spese per la Coppa di calcio, sono state il preludio della grande esplosione di strada del 17 giugno. Allo stesso modo, in altre città si evidenziano le altre lotte urbane (“una periferia attiva”) come quelle di cui sono state protagoniste le favelas e il MTST (Movimento dei Lavoratori Senza Tetto, ndt) a San Paolo. I metodi di occupare le strade dall’autonomia, di fronte alle politiche globalizzatrici, avevano già fatto presa in Brasile, negli anni precedenti al 2013. Nei nuovi movimenti globali (globali per internazionalisti, connettere una moltitudine di necessità basilari e cercare una radicalizzazione democratica del sistema, incluso dei partiti) non sono spontaneisti, anche se il loro modo di operare dà gran peso e creatività alla reinvenzione dei modi di fare politica, attraverso il protagonismo sociale.

 5. Più che giovani iracondi, sono “nuovi ribelli”: si creano idee e pratiche per una società alternativa.

In modo meno visibile, tanto per i grandi media come per gran parte della sinistra classica, esiste una serie di iniziative sociali che si stanno calando nell’idea che ha recuperato Darcy Ribeiro: criticare la sinistra per combattere il sistema sociale. La critica è diretta verso la costruzione di alternative alla trama dei poteri che agiscono in senso contrario all’emancipazione delle persone e dei popoli: un capitalismo che infrange i limiti ambientali e sociali per la nostra sussistenza, un patriarcato sempre più percepito come autoritario e una omogeneizzazione culturale segregazionista (classe, etnia, origine) secondo modelli della società del consumo e delle elite europee e anglosassoni (le zone definite come fuori dalla “barbarie” dai centri “civilizzati”, secondo Boaventura de Sousa Santos).

La tecnologia è diventata, in parte, alleata di questo mondo finanziario-predatore, ha smesso di essere per la “convivenza”, come ha detto Ivan Illich negli anni settanta, per costruire imperi di dominazione molto capillari e molto inseriti nel quotidiano: dal consumo globalizzato, fino alla repressione in ogni spazio pubblico suscettibile di essere mercificato, passando per l’educazione culturale su stili di vita competitivi e insostenibili. È per questo che la contestazione, specialmente tra i giovani “iracondi”, sta prendendo come bandiere le pratiche di economia solidale più contestatrici e favorevoli a processi di cooperazione sociale: fondi comunitari, fabbriche occupate o progetti di controllo territoriale di comunità escluse, la lotta per la sovranità alimentare (mercati agroecologici, cooperative di produzione e consumo) o la costruzione di mezzi di comunicazione e cultura comunitari (nei quartieri, comuni, favelas, accampamenti rurali), eccetera.

Questo fenomeno che attualmente attrae i “giovani iracondi” è identificabile tanto in Brasile come in Spagna. Come era avvenuto nei settanta, criticano la società consumista-produttivista che non dà la felicità. In questo senso si avvicinano ai cosiddetti nuovi movimenti sociali (ecologismo, femminismo, autonomia politica, diritti delle minoranze). Ma nella loro contestazione sistemica (combattendo la politica autoritaria, le istituzioni capitaliste, l’insostenibilità globale) si affratellano con il movimento operaio, mentre, in America Latina, risuonano in loro echi socio-comunitari propri di ciascun paese. Così apertamente, camminano senza un progetto unitario, per ora, perché “camminano domandando”, come dicono gli zapatisti.

 6. I nuovi ribelli rivisitano la pedagogia di Paulo Freire.

In Brasile già si danno alcune articolazioni assembleari tra organizzazioni popolari, su una linea che si allontana dalle classiche piattaforme di sinistra o dai recenti forum sociali locali. Prendendo come esempio l’Assemblea Popolare Orizzontale di Belo Horizonte, leggiamo che “era necessario uno spazio spontaneo, aperto e orizzontale di dibattito che permettesse di elevare le rivendicazioni popolari e l’organizzazione di una pluralità di voci, in modo coordinato per ottenere risultati concreti”. Gli echi del 15M, come afferma un attivista, in quanto a metodologie e forme di partecipazione, permette di affermare l’esistenza di una cultura politica dietro ai nuovi movimenti globali. Su questa linea situiamo anche organizzazioni plurali e assembleari come Rivolta Popolare Giovanile.

Autonomia, reticolarità orizzontale e protagonismo sociale saranno segni di identità delle future mobilitazioni. Lo saranno per queste dinamiche emergenti, ma anche per l’insieme di pratiche socio-comunitarie che costituiscono un riferimento del fare vitale e politico del Brasile. La pedagogia di Paulo Freire, la sensibilità territoriale di alcune lotte (MST, MPA, Movimento dei Danneggiati dalle Dighe, quilombolas (comunità di schiavi fuggitivi, ndt), gruppi indigeni in difesa del proprio territorio, eccetera), la tradizione emancipatoria socio-comunitaria (e non la semplice “cordialità” brasiliana) degli anni sessanta e settanta, insieme alla presenza di movimenti afro, contadini e indigeni, sono alcune delle chiavi che spiegheranno anche il perché di questa ricerca da un fare collettivo e “dal basso”.

In questo, il Brasile o il Messico danno altri apporti rispetto alle forme di mobilitazione del 15-M spagnolo, che sono più individuali e libertarie, più dirette sul breve periodo che a costruire processi di maggiore portata. In tutti questi casi il concetto di dignità, nella politica e nell’economia, gli serve per prendere coscienza e costruire più reti di forma dialogica. Riguardo la società questi giovani iracondi costruiscono grandi conversazioni che erano rimaste fuori dall’agenda politica, anche della sinistra, come, cosa intendiamo per democrazia e in quali diversi luoghi si trova bloccata; o come affrontare localmente e globalmente i problemi ambientali di portata planetaria.

7. I nuovi ribelli, anche se con grandi limiti, parlano di processi politici prima che di processi di partito.

Se negli anni settanta le idee dei giovani iracondi si sono afferrate a rivoluzioni immediate, in molti casi per mano di nuovi partiti, i nuovi ribelli sembrano riconoscere che si tratta di un processo più complesso, dove i partiti sono strumenti ma non i pezzi centrali del tabellone politico. Giovani e non tanto giovani oggi si stanno organizzando in forma “apartitica”. Come ha affermato una attivista: “il movimento è nelle strade, nelle scuole, nei quartieri”, solo che “non pensiamo ad un modello già pronto, crediamo che sia un processo collettivo, così che lo riportiamo alla nostra stessa organizzazione”. Le loro lotte ambientali, femministe, anti-capitaliste e “per un mondo in cui ci siano molti mondi” (riprendendo il discorso zapatista) sono già espressioni di questi modelli, che senza dubbio saranno più aperti verso altri assi di potere di come furono, generalmente, le ideologie del XX secolo. E le loro pratiche dovranno trasformarsi al calore di queste richieste, delle loro proposte di vita e dell’utilizzo di una tecnologia che crea nuove forme di legame sociale attraverso tutto il mondo.

Più preoccupante per valutare i limiti di questi nuovi movimenti è la loro tendenza a cercare somme e non processi sociali. Definisco la “la politica dell’y” come quella cultura politica che cerca la diversità, gli altri e le altre, di costruire dalla complessità. Il 15-M è un esempio di queste forme di aggregazione cittadina come anche, in gran parte, le proteste in Brasile. La gente è accorsa nelle strade con il proprio specifico cartello e con un atteggiamento sfiduciato, se non belligerante, verso coloro che portavano le bandiere. Questo fatto ha di positivo che la stessa protesta dà voce agli scontenti, è già dimostrazione di un agorà fisico che si collega con gli agorà virtuali che hanno galvanizzato molte di queste proteste. Per una attivista di queste mobilitazioni, con esperienza in organizzazioni sociali, questa è stata la chiave: “proprio perché lo hanno fatto in un altro modo, senza bandiere, motivando l’espressione di ciascuno, questo ci ha fatto scendere nelle strade”.

Ma a volte questa capacità di attrazione si ferma lì. Individualità che si uniscono e dopo smettono di relazionarsi. Critica espressiva ma non insurrezione sociale. Creazione di affinità ma non costruzione di progetti di vita alternativi. Risuonano qui, immancabilmente, gli echi di una società “liquida” (come ha detto Zygmunt Bauman), molto simile alle forme di relazione su Facebook. Questa dinamica si rende anche visibile nella forma on/off di partecipare, soggetta a puntuali conferme. Le eccezioni non sono minoranza, nonostante ciò, come dimostrano spazi più stabili e contesti come il Movimento Passe Livre, che a ottobre 2013  ha nuovamente convocato una settimana di lotta per il trasporto pubblico, anche come “mezzo per la costruzione di un’altra società”.

Non tutte sono buone notizie. La “politica dell’y” (più aggregativa, assembleare) attrae l’attenzione delle più giovani, di fronte alla “politica della o” (tradizionale, più settaria, verticistica nella pratica). Ma può diventare facilmente liquida: a volte punta ad una contestazione più espressiva e individualizzata che ad una proposta colletiva per disputare il potere, nel quotidiano (il politico) e in ciò che è più istituzionalizzato e mediatizzato (la politica).

8. Esiste una difficoltà a costruire alleanze e collegamenti sociopolitici in un contesto di dispersione della sinistra e di frammentazione dei legami sociali.

Non c’è dubbio che nel contesto brasiliano molte organizzazioni del “progetto degli ottanta” ridisegneranno le proprie basi e forme di azione sociale. Il sindacalismo messicano dei maestri oggi mostra forme di contestazione che superano le classiche barriere dei sindacati di co-gestione delle politiche neoliberiste. Questo è lontano dall’avvenire in Spagna. E in Brasile?

Da parte delle organizzazioni rurali, contadine ed indigene, la sfida sta nel costruire democrazia a partire dalla sovranità alimentare e dai territori, come dimostrano in questo ultimo caso le proteste contadine in Colombia. Lì sta avvenendo una protesta che riunisce una richiesta molto forte di autogoverno e sostenibilità in differenti territori, come la richiesta di una estensione della pratica delle zone di riserva (afro, indigeni) verso gli stessi contadini.  Si tratta di produrre a partire dai sistemi agroalimentari locali e agroecologici. Ma si creano anche sinergie con territori urbani e con settori più giovani, frutto di queste pratiche dei nuovi movimenti globali. Così, il 26 agosto, diverse città in Colombia hanno visto come centinaia di migliaia di persone siano scese nelle strade e nelle piazze in quello che è stato un “cacerolazo” solidale di otto giorni di lotta contadina.

Non è sempre facile questa creazione di sinergie tra differenti culture e domande politiche. In Brasile, per esempio, durante le proteste di giugno ci sono stati elenchi di azioni che si sono succedute nel tempo e che in qualche modo hanno avvicinato le richieste delle favelas ai nuovi giovani “iracondi”. Tale sarebbe il caso della campagna “Dove sta Amarildo?”. O determinate lotte per la casa e l’occupazione di edifici nella città. Ma nel diseguale Brasile la successione di elenchi è lontana dal creare sinergie tra queste nuove reti e le proteste già consolidate.

Il territorio, come spazio da difendere ecologicamente e socialmente, appare come una strategia di fronte alle forme di potere capitalista che cercano di impadronirsi di ecosistemi e di mercificare i legami sociali. Le lotte per la difesa di “beni comuni”, siano ambientali o quelli che permettono la cooperazione sociale (spazi pubblici, tecnologia sociale, autogoverno), saranno un riferimento di pratiche che vogliono lavorare a partire dalla interculturalità e dal dialogo tra ribelli.

9. Questa nuova sinistra è ribelle ma, è insurrezionale?

Questa nuova sinistra, che va oltre la sinistra classica, ancora sta per passare, come vediamo nella strada, dagli elementi insurrezionali nella protesta alle dinamiche insurrezionali in seno alla società. Gli ostacoli sono lì, nella questione della scala per passare dal politico alla politica: la difficoltà di costruire iniziative che vadano al di là delle “isolette” per essere un riferimento della popolazione nel momento di soddisfare le necessità basiche.

Un altro tema è la relazione conflittuale con lo stato. In generale, soprattutto in Brasile, non si rifiuta, ma si discute che “l’aiuto pubblico non serve a sviluppare l’autonomia”, come si è espresso un cooperativista. I limiti di uno stato paternalista sono una critica condivisa nei circoli dell’economia solidale del Brasile per descrivere il perché del relativo fracasso delle iniziative pubbliche in questo campo. Allo stesso tempo, l’apartitismo ha a che vedere, a giudizio di una partecipante alle proteste, con “la critica degli apparati elettorali prima che della costruzione di partiti diversi”.

I nuovi ribelli cercano di proporre processi più vicini alla pedagogia dell’autonomia di Freire che alle direttrici più elitarie del marxismo ortodosso, nell’intento di trovare articolazioni e forme di radicalizzazione della democrazia che possano attrarre gli “iracondi del XXI secolo”, i nuovi ribelli. Tutto questo senza perdere il riconoscimento di singolarità e specificità che si danno nelle lotte molto fruttuose del Brasile, negli accampamenti rurali, nelle fabbriche occupate, nelle comunità delle favelas, nelle lotte ambientaliste o nelle iniziative contro il patriarcato.

Ma è certo che gli stessi processi di questi ribelli sono ancora lontani dall’esibire e pensare forme di articolazione più ampie, in parte perché la stessa sinistra più organizzata sente minacciate le proprie forme, le proprie convenienze e la propria direzione su gruppi sociali concreti. Partiti minoritari di sinistra, in genere, sembrano più disposti ad “acchiappare voti” che ad apprendere nuovi modi di collegamento e di protagonismo sociale. In questo ambito Brasile, Spagna o Messico si assomigliano oltremodo.

10. I nuovi ribelli propongono nuove domande, non vecchie risposte, questo è il loro principale contributo: i discorsi sociali sono cambiati.

Per alcuni anni ancora le spese come quelle della Coppa o delle Olimpiadi saranno il richiamo delle proteste ma, dopo? Idealmente, l’insurrezione degli “iracondi” nelle strade dovrà consolidare processi in cui i “nuovi ribelli” praticheranno i propri modi di vita e i propri modi di fare politica. “Dopo i cortei, ora è il momento di organizzarsi” ha suggerito una attivista. Ma è una organizzazione differente, ispirata a questa radicalizzazione della democrazia all’interno (organizzazione) e all’esterno (richieste) delle proteste.

Mentre la contestazione in strada si consolida, sarà necessario accompagnare questa costruzione con la diffusione di strumenti di partecipazione e di alternative economiche e culturali per l’insieme delle escluse e degli esclusi. È tutta un sfida che compete a questi “nuovi ribelli”. Necessariamente quelle e quelli evidenziano che dobbiamo riproporci molte domande, mentre costruiamo emancipazioni, prima di ricorrere a modi automatici  di distribuire o imporre risposte alla società. Si tratta di dilemmi propri di movimenti e spazi cooperativistici, e che vogliono costruire democrazie emergenti, dal basso verso l’alto.

A modo di conclusione: i giovani iracondi sono tornati a contestare la vecchia politica e i poteri autoritari stabiliti. Forse fanno sempre questo, tornare e tornare. E quando tornano modificano sempre il contesto. Le lotte di oggi sono impossibili da comprendere senza gli apporti generati nei decenni dei sessanta e settanta, come la critica a partire dall’autonomia, la concezione ampia e critica del potere, la denuncia di pratiche patriarcali nel sistema economico, ma anche nelle stesse organizzazioni sociali, la coscienza ambientale e dei limiti del pianeta, eccetera. Da lì la loro rilevanza.

Il mondo capitalista è limitato dal suo uso delle risorse e dalla sua permanente creazione di insoddisfazione sociale, che non vuol dire che sparirà per conto suo. Come ho giustificato nel libro La Transición inaplazable (La Transizione improrogabile), esiste la possibilità di una transizione dolorosa verso campi prossimi al fascismo sociale e al governo di minoranze trincerate nelle proprie comunità che accaparrano i beni di tutte e tutti. I nuovi soggetti politici, questi nuovi ribelli provenienti dai giovani iracondi, stanno proponendo altri modi di fare politica e altre società. Propongono una transizione umana. Questa “nuova sinistra” si sta avvicinando al nucleo di alcuni problemi in modo complessivo, realtà estremamente lontana per i processi rivoluzionari del secolo scorso: costruire società a partire dalla diversità, dal protagonismo sociale e dalla sostenibilità socioeconomica.

Angel Calle è autore di La Transición Inaplazable. I nuovi soggetti politici per uscire dalla crisi (Icaria, Barcelona, 2013).

Pubblicato lunedì 11 novembre 2013

Desinformémonos

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Angel Calle Collado, “Brasil, de los jóvenes iracundos a los nuevos rebeldes pubblicato l’ 11-12-2013 in Desinformémonos, su [http://desinformemonos.org/2013/11/brasil-de-los-jovenes-iracundos-a-los-nuevos-rebeldes/] ultimo accesso 20-12-2013.

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