Il monologo del potere e la resistenza sociale


Eduardo Nava Hernández

A Città del Messico due intense giornate di mobilitazione hanno in questa circostanza fatto da sfondo al peculiare messaggio di Enrique Peña Nieto in occasione del suo primo Rapporto di Governo. Sabato 31 agosto, Cuauhtémoc Cárdenas ha guidato un corteo in difesa del petrolio nazionale, al quale hanno partecipato gruppi del PRD, gruppi della CNTE, del Morena e cittadini indipendenti, e nel quale il figlio del generale Cárdenas si è anche pronunciato contro l’iniziativa di riforma dell’educazione che attacca gli insegnanti. Domenica 1°, i professori della CNTE e del movimento #Yosoy132 hanno marciato verso il Palazzo Legislativo di San Lázaro, anche se non sono potuti arrivare a causa del dispositivo della polizia che era intorno alla zona transennata. In questo giorno, giovani che comunemente vengono chiamati anarchici o Blocco Nero, si sono scontrati con i granatieri usando proiettili e bottiglie molotov.

Successivamente, le manifestazioni contro la erroneamente chiamata riforma educativa e la progettata apertura del settore petrolifero al capitale transnazionale sono continuate, come si sa, mercoledì 4 e giovedì 5. Ma non solo questo, le mobilitazioni si sono estese a istituzioni dove precedentemente la CNTE non ha avuto forza, come a Jalisco, Veracruz, Yucatán, Bassa California, Bassa California del Sud o Chihuahua. In una maniera più iniziale ci sono manifestazioni anche in molte altre regioni che riflettono un processo di veloce corrosione delle strutture corporative del Sindacato dei Lavoratori dell’Educazione SNTE dalle sue basi. Il movimento minaccia di continuare a crescere, e ancor di più dopo questo fine settimana quando verrà fatto il raduno convocato da López Obrador a Città del Messico e saranno annunciate le condizioni dell’iniziativa presidenziale di riforma fiscale.

Il messaggio di Peña Nieto di lunedì 2 non è potuto essere più opaco. Sono stati omessi dati essenziali della situazione nazionale come il ristagno economico –che ha fatto scendere il lavoro, nonostante la, a suo tempo, strombazzata riforma del lavoro–, il ritorno del processo inflattivo, l’insicurezza che non si può fermare, la persistenza del controllo territoriale da parte dei più forti gruppi delinquenziali che smaschera l’incapacità dello stato e delle sue istituzioni, le costanti violazioni dei diritti umani, il crescente discredito nell’indagare e amministrare la giustizia, l’insoddisfazione sociale –anche graduale– verso le cosiddette riforme “strutturali” promosse dall’Esecutivo. In cambio, nel discorso presidenziale sono stati censurati i gruppi di autodifesa e denigrati come minoritari i gruppi che si oppongono alle sue iniziative riformiste.

In verità, dal governo di Felipe Calderón una disgraziata riforma costituzionale ha eliminato l’obbligo del capo dello stato e anche del capo del Governo della Repubblica di assistere personalmente all’apertura del periodo di sessioni del congresso e di fare lì un rapporto sullo stato dell’amministrazione pubblica. L’atto repubblicano, di altri tempi, di comparizione e dialogo tra poteri (almeno nella sua intenzione giuridica, anche se il regime meta-presidenziale dell’era priista lo ha trasformato nel Giorno del Presidente) è stato sostituito da quello che Porfirio Muñoz Ledo ha chiamato “un modello insolito di separazione dei poteri, equivalente alla rottura delle relazioni nel mondo diplomatico”. Il cammino iniziato così dal calderonismo è ora sfociato in un atto dove i poteri della medesima Unione, la rappresentanza popolare, si trovano come tali esclusi e il “messaggio”, mero atto mediatico, viene emesso dalla residenza del presidente, non dalla sede dell’Esecutivo (il Palazzo Nazionale). Non sorprende che una predica di intolleranza, come quella che il 2 settembre Peña Nieto ha tirato fuori, fosse fatta nella residenza de Los Pinos e di fronte al molto limitato pubblico di 1500 invitati del Presidente, la vera minoranza o elite che gestisce i fili del potere nel paese.

L’immagine che si ha oggi, da parte dello stato, dei poteri pubblici è quella di un Legislativo non preso in considerazione dal sempre più potente Esecutivo, e anche sottomesso a questo, dove il dialogo diretto della rappresentanza popolare con l’istituzione presidenziale è impossibile. Non meraviglia che questo presidenzialismo di nuovo conio nemmeno ascolti le richieste emanate direttamente dai settori della società, particolarmente da coloro che sono posti nella subalternità e nella debolezza economica e politica.

In modo ancor più paradossale, da lontano, senza la presenza del Legislativo, Peña si è preso il lusso di fissare una data a questo per “trasformare il Messico” nel termine di un periodo di sessioni, 120 giorni, approvando le iniziative di riforme “strutturali” che da tempo i poteri economici stanno richiedendo.

Ma, d’altra parte, anche il quadro dello stesso Esecutivo è stato quello di un potere messo in discussione e anche assediato dai settori che, forse minoritari ma molto numerosi, hanno dovuto usare, oltre ad argomenti solidi ma non ascoltati, il loro stesso numero come modo di pressione per farsi ascoltare. Peña Nieto impossibilitato a recarsi a San Lázaro, o anche al Palazzo Nazionale per manifestare il proprio messaggio, ha per prima cosa valutato di farlo dalle installazioni militari (con tutto il carico simbolico che questo avrebbe implicato), da quello che alla fine non smette di essere la residenza privata del titolare della presidenza. La povertà di questo rozzo monologo del potere è solo mediata dall’azione di diffusione –ma non di comunicazione– dei grandi media convenzionali, soprattutto quelli televisivi, come quasi unico legame tra chi parla e il resto della società.

“Nessuno può imporre la propria verità agli altri”, ha sentenziato il segretario del Governo consegnando il rapporto scritto nella sede del Congresso il 1° settembre, e che “gli interessi di alcuni (sic) non devono anteporsi al benessere delle maggioranze”. Ma tanto la Presidenza come lo stesso Congresso sono stati refrattari alle proposte o richieste dei gruppi che si oppongono al suo programma di riforme. La logica di “maggioranze” e “minoranze” non c’è stata, né in questi processi sarà sufficiente né per dirimere la legittimità delle iniziative né per convincere che attraverso queste si ottenga il benessere sociale. Alla fine dei conti, l’attuale governo si è insediato con il voto di solo il 24 per cento delle liste dei cittadini abilitati a votare nel 2012. I 60 milioni di questi che non si sono recati a votare o che hanno votato per altre opzioni sono, senza dubbio, una maggioranza di fronte ai 19 milioni che lo hanno fatto per Peña Nieto. La legittimità di un governo non è, allora, una questione numerica, ma solo qualcosa di apprezzabile per la sua capacità di creare, attraverso una comunicazione dialogica, consenso non solo nelle sfere dove di per sé si concentra il potere politico come quella parlamentare, ma nell’insieme della società.

La resistenza sociale oggi riversatasi nelle strade non sembra che nell’immediato diminuirà nell’immediato ma, al contrario, sarà in una fase di ascesa e anche di radicalizzazione. Di fronte a questa, la via finora provata, quella del monologo introspettivo dell’oligarchia al potere, secondo la distinzione classica di Robert Michels, non sembra in assoluto produttiva né efficace.

Eduardo Nava Hernández. Politologo – UMSNH

05-09-2013

Cambio de Michoacán

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Eduardo Nava Hernández, “El monólogo del poder y la resistencia social” pubblicato il 05-09-2013 in Cambio de Michoacán, su [http://www.cambiodemichoacan.com.mx/editorial-8655] ultimo accesso 12-09-2013.

 

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