Vogliamo tutto! Le giornate di giugno in Brasile: la costituzione selvaggia della moltitudine del lavoro metropolitano


Giuseppe Cocco e Bruno Cava

Pubblichiamo questo interessante contributo apparso giorni fa sul blog di Europassignano2013 scritto da Giuseppe Cocco e Bruno Cava. Gli autori dell’articolo riescono ad analizzare e valutare il contesto politico in cui ha preso forma e dinamica la rivolta in Brasile delle scorse settimane. Una lettura utile in attesa del 7 settembre giornata di mobilitazione nazionale per il Brasile degno e ribelle, e prova del fuoco per la nuova fase aperta dal movimento emerso durante l’estate.

Nel momento in cui scriviamo queste brevi note (metà agosto 2013), il formidabile movimento di giugno in Brasile sembra attraversare una fase ambivalente, definita da tre caratteristiche: il riflusso, la diffusione e il dislocamento.

Riflusso: sono finite le mobilitazioni massicce di centinaia di migliaia di persone che avevano luogo due volte tutte le settimane (lunedì e giovedì) e quelle in occasione di ogni partita della Confederation Cup. Questo non significa che la fase delle mega manifestazioni si sia chiusa. Lo stato di mobilitazione si mantiene, come una latenza sempre in agguato sui poteri costituiti. Qualche cosa di fondamentale nella percezione di molti è cambiato: i governi gli riconoscono un potere formidabile, mentre i governanti sono obbligati a cercare di identificare leaderships e a negoziare, senza sapere che fare con il nuovo. Le mobilitazioni annunciate per il 7 settembre saranno una verifica importante dei livelli di massificazione del movimento.

Diffusione: il movimento moltiplica le forme di lotta (manifestazioni, assemblee e occupazioni di parlamenti nelle capitali federative e di Consigli Comunali, anche delle città più piccole). Si tratta di un processo che investe tutto il paese e tutto l’arco delle rivendicazioni già presenti (ma con la centralità dei trasporti urbani). Le proteste hanno creato una situazione rivoluzionaria nella misura in cui hanno immediatamente rafforzato (e riqualificato) le lotte, le rivendicazioni e i movimenti che già esistevano. Ci troviamo in un vero e proprio Kayros: è qui e subito che i molti fanno valere le piattaforme di lotta fino a poco tempo fa’ bloccate, come il diritto alla città, la legalizzazione dell’aborto, la mobilità urbana e la lotta contro il terrore poliziesco usato come metodo sistematico di regolazione della povertà.

Dislocamento: l’asse fondamentale delle mobilitazioni – dal quale dipende oggi in buona parte il futuro del movimento – è passato da São Paulo a Rio de Janeiro. Rio è la cartolina postale del progetto di un nuovo Brasile ricco: è stata il teatro dei Giochi Panamericani, della Conferenza Rio + 20, di alcune partite della Confederation Cup e infine della visita del Papa argentino. È qui che avranno luogo la finale della Coppa del Mondo (nel 2014) e le Olimpiadi (2016). Ma è a Rio de Janeiro che le giornate di giugno si sono mantenute durante tutto il mese di luglio e continuano con forza oggi (metà agosto) con manifestazioni, riunioni, assemblee che hanno luogo tutti i santi giorni, senza accennare a nessun indebolimento. Rio de Janeiro è oggi una città disobbediente, che non si sottomette agli interventi igienizzanti promossi dal governo (nelle sue tre sfere) in nome dei grandi eventi. È proprio a Rio che l’attuale fase del movimento di giugno appare chiaramente sotto una luce ben più potente, che illumina la breccia aperta dalla moltitudine nel paradosso lulista.

La breccia della moltitudine nel paradosso lulista

Possiamo fare due grandi affermazioni sul movimento di giugno e i suoi sviluppi attuali. La prima è che questo movimento è il miglior risultato dei governi Lula (e Dilma). La seconda è che la moltitudine dei poveri e dei lavoratori metropolitani ha aperto una breccia nel paradosso che racchiude i dieci anni di governo federale del PT, e cioè in quella che abbiamo definito come “la centralità paradossale dei poveri” (che altri hanno definito come “lulismo”, riducendola alla sua dimensione elettorale o economicistica). Queste due affermazioni ci permettono subito di definire la difficile situazione nella quale si trovano il PT e il governo: da una parte si tratta di un movimento che è frutto della mobilitazione produttiva che i suoi governi hanno promosso; dall’altra, il governo e il PT hanno colto questa mobilitazione solo sul piano elettorale ed economicistica, fornendone una valutazione meramente oggettiva. Si sono quindi mostrati totalmente incapaci di capirla nella sua dimensione soggettiva: non riescono a capire come una mobilitazione produttiva abbia generato altri soggetti sociali, nuove qualità e nuove capacità. Addirittura, per un buon momento, gli sono stati ostili, correndo il rischio di spingere il movimento nella sua fase più massiccia nelle mani della reazione.

Chiudendosi totalmente sulla strana ibridazione di neo-sviluppismo (re-industrializzazione e grandi opere) e neo-liberismo (l’emergenza della “nuova classe media” come stratificazione di reddito e di consumo), il governo Dilma mostrava tutti i segni di esaurimento dell’ambivalenza del periodo Lula. Ma, nonostante si potessero avvertire e osservare delle inflessioni e degli scricchiolii, fino a giugno il paradosso vigeva sovrano. Quando nessuno se l’aspettava, la terra ha cominciato a tremare. Certezze, calcoli e previsioni si sono sciolti nell’aria. Subito dopo i successi elettorali del PT nelle elezioni municipali (soprattutto a São Paulo dove è riuscito a imporre il sua candidato e a Rio dove il candidato dell’alleanza di governo ha vinto con maggioranza schiacciante nel primo turno), la Presidente Dilma (che si giovava di altissimi indici di approvazione popolare nei sondaggi elettorali) si preparava per la rielezione trionfale. I dirigenti del PT ammettevano come unica variabile di una possibile destabilizzazione della rielezione di Dilma gli eventuali capricci del ciclo economico. Nuovamente, l’approccio era oggettivo, inadeguato a comprendere la latenza delle trasformazioni sul livello di produzione di soggettività che il lulismo stesso ha accelerato.

Le prime scosse si sono concentrate a São Paulo e non hanno per nulla scosso la posizione del governatore (di destra, opposizione al governo federale) e del neo-eletto sindaco del PT. Il giovane sindaco “di sinistra” ha fatto causa comune con il tradizionale governatore di destra, difendendo la correttezza dei calcoli che giustificavano l’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici. Ma la magnitudine delle scosse non ha smesso di aumentare e, dietro il fumo dei lacrimogeni, le impalcature della rappresentanza avevano cominciato a cadere: seppur con fisionomie stizzite, Governatori e Sindaci delle due principali città e Stati del paese (São Paulo e Rio de Janeiro) hanno dovuto presentarsi alla televisione per dichiarare ufficialmente il congelamento delle tariffe degli autobus. Troppo tardi. Il decreto della plebe sul biglietto dell’autobus sarà solo il primo di una lunga serie.

Dopo il terremoto, è arrivata l’onda anomala: mentre sindaci e governi cercavano disperatamente (in una paradossale e comica inversione di ruoli) di “eleggere” qualche rappresentante per poter negoziare, le manifestazioni continuavano sempre più massicce, autonome e con obiettivi sempre più generali, in un dislocamento che vedeva Rio diventare l’asse del movimento: massicce manifestazioni hanno avuto luogo in più di 400 città e, cosa mai vista, nelle periferie delle metropoli. L’apice di questa prima fase sarà raggiunto dalle manifestazioni di 3 o 4 milioni di persone a Rio il 17 e 20 giugno e da quella (in clima di coprifuoco) durante la finale della Confederation Cup tra Spagna – Brasile (tutte e due segnati da duri scontri, cariche e rastrellamenti di polizia). Il 17 giugno, a Rio, la manifestazione terminerà con l’assalto da parte di migliaia di giovani alla Assembleia Legislativa (il parlamento) dello Stato di Rio1.

La moltitudine si è invitata al tavolo delle discussioni, la terra ha tremato e quando l’onda anomala ha travolto il PT e la sinistra in generale, i suoi dirigenti sono stati gli unici a non rendersene conto. Perché? Perché quello che è stato travolto è il paradosso lulista, cioè il proprio modo d’essere che il PT e il governo hanno finito per incarnare in questi ultimi anni. La posizione dell’intellighenzia del PT oscilla tra la criminalizzazione delle manifestazioni come golpiste, di destra e di classe media – temendo che le principali “vittime” delle proteste sarebbero i governi del PT, — e una vaga simpatia davanti alla mobilitazione popolare, con un tono quasi civico, ma senza capire e tanto meno accogliere la sua forza costituente, come trasformatrice della maniera di governare della quale il PT è divento l’artefice. L’unica operazione politica del PT – comandata da Lula in prima persona – si è ridotta a nominare come rappresentante del movimento una rete di marketing giovanile.

A partire dal 2010, il paradosso lulista dava segni di saturazione: da una parte, il patto di governabilità appariva sempre più come un consenso tendenzialmente autoritario e, dall’altra, il governo era sempre più sfidato dalla moltiplicazione di episodi di lotta e movimenti di resistenza minori.

Fino a quel momento, il lulismo aveva mantenuto una doppia faccia: da una parte, un “lulismo di Stato” che oppone una gestione moderna, efficiente e centralizzata al ritardo, alle vecchie elite e alla corruzione come soluzione del sottosviluppo; dall’altra, un “lulismo selvaggio”, che contrappone allo Stato neocoloniale brasiliano la radicalizzazione della democrazia, una democratizzazione “dal basso”, a partire dalle minoranze e dal loro divenire. Nelle giornate di giugno e nel loro sviluppo, il lulismo selvaggio si è ricomposto in modo autonomo, rompendo l’ambiguità. Questa carica selvaggia ha determinato non solo l’imprevedibilità delle proteste, ma ha anche affermato l’insoddisfazione stessa davanti al modello neosviluppista che, secondo gli indicatori ufficiali, è un successo. In questo senso, le manifestazioni esprimono l’indignazione generalizzata contro il successo di un modello, aprendo l’orizzonte a un’altra realtà politica e antropologica: il bRASILE minore – mundobraz!

I due assi contraddittori del Lulismo

Il consenso sempre più autoritario – con Dilma – relegava ai margini dei riti elettorali e del loro marciume quella che sembrava essere la vitalità dell’appoggio delle basi (dei poveri e non solo) alle politiche di riduzione della disuguaglianza e di democratizzazione dell’accesso promosse dal governo federale. Le giornate di giugno hanno rotto lo stallo politico e sociale nel quale questa centralità paradossale dei poveri si era trasformata. Ci sembra – anche se è presto per dirlo – che questa rottura sia definitiva e irreversibile (indipendentemente dalle sue future traduzioni elettorali). Per capire un po’ meglio il paradosso del quale parliamo possiamo enunciarlo in altro modo, cioè sviluppandolo in due assi complementari e contraddittori.

Il primo asse è disegnato dalla moltiplicazione – negli ultimi 2 o 3 anni – di lotte minoritarie che non riuscivano a ricomporsi sul livello metropolitano: si trattava della resistenza degli abitanti delle favela contro le espulsioni causate dalle grandi opere della Coppa del Mondo e delle Olimpiadi, delle lotte degli índios dell’Amazzonia contro i grandi lavori delle dighe idroelettriche, dei violentissimi scioperi a “gatto selvaggio” degli operai delle stesse grandi dighe o delle occupazioni di terre da parte degli índios e neri quilombolas. A queste esplosioni nuove, dobbiamo aggiungere le iniziative endemiche di resistenza e produzione culturale nelle favela e nelle periferie contro la tradizionale violentissima presenza della polizia. Queste e molte altre lotte minori rimanevano minoritarie davanti al fatto che il governo Lula (e Dilma) nel suo insieme stava sensibilmente migliorando il livello di vita dei molti, cioè dei più poveri. La divergenza della curva crescente della crescita del PIL rispetto a quella decrescente della disuguaglianza mostra molto bene il carattere nuovo di quel che è successo negli ultimi dieci anni in Brasile (grafico n. 1). Tutto questo in una situazione materiale dove gli innegabili progressi in termini di riduzione della disuguaglianza scalfiscono appena la durezza della povertà e la violenza del rapporto dei poveri al sistema di servizi pubblici (salute, scuola, polizia, giustizia) e soprattutto alla città: trasporti e infrastrutture basilari. È la normalità di avere uno stadio nuovo di zecca (o un museo) accanto a gigantesche favela con le fogne a cielo aperto che è stata rotta (anche se solo in parte) dal movimento di giugno. È la naturalizzazione del genocidio dei giovani neri e poveri che è stata rotta, facendo del nome di uno dei più recenti scomparsi nelle mani della polizia la parola d’ordine di tutte le manifestazioni di Rio e di São Paulo a partire da metà di luglio fino ad oggi (metà agosto).

Il secondo asse paradossale è la conseguenza e la traduzione elettorale del primo e appare nella figura dell’impasse che ha funzionato a partire dal 2005 (cioè dopo la crisi politica legata allo “scandalo” dell’acquisto dei voti di parlamentari di piccoli partiti per costituire la maggioranza parlamentare del PT): la critica al governo Lula correva immediatamente il rischio di essere catturata dall’opposizione di destra (fondamentalmente rappresentata dai consigli di amministrazione dei grandi gruppi monopolistici di comunicazione, con la Globo in prima fila). Il lulismo è proprio il nome di questo vicolo cieco delle lotte e della critica al governo Lula-Dilma. Da una parte, con le sue politiche sociali, Lula (e il PT a seguito di Lula e mai davanti a lui) ha trasformato radicalmente, sin dalla rielezione (nel 2006), la sua base elettorale, passando dai settori più organizzati (classi medie, lavoratori) delle città più sviluppate del sud e del sud-est alle masse povere (marginali ma maggioritarie) delle periferie urbane e delle zone meno sviluppate (in particolare nel nord-est). La crisi politica del 2005, che sembrava poter causare anche la destituzione precoce di Lula, è stata invece il teatro della sua affermazione come un fenomeno allo stesso tempo più forte (per lo meno in superficie) della destra reazionaria e dello stesso PT (e dei partitini che gli sono complementari). Da un lato, questo gli ha permesso di imporsi sull’opposizione di destra e sui differenti settori del PT (in particolare imponendo la sua candidata alla successione, Dilma Roussef). Dall’altro, tutte le critiche o lotte contro il lulismo o i suoi “limiti” erano ridotte ad essere funzionali alle campagne della destra o, più semplicemente, a rimanere impotenti.

Ebbene, l’insurrezione di giugno è cominciata con alcune piccole brecce aperte nel muro di questo vicolo cieco dall’insurrezione contro il prezzo dei trasporti pubblici. La moltitudine del lavoro metropolitano si è infilata nella breccia facendo esplodere il paradosso, destituendolo. Il potere destituente ha sgretolato ogni sensazione di legittimità della quale godevano i governi e i rappresentanti e degli accordi e affari di vertice che determinano le politiche pubbliche al margine di ogni processo democratico. Nella misura in cui il Movimento per il Biglietto Gratis (Movimento pelo Passe Livre – MPL) ha promosso una lotta per la riduzione delle tariffe (con l’obiettivo finale della gratuità), il suo risultato è la riduzione dei margini di profitto del business dei trasporti pubblici. Diminuzione che colpisce in pieno la rete di accordi di gabinetto, le condizioni di governabilità ed ha effetti politici immediati. Non è per caso che il Sindaco (PT) di São Paulo diceva che era “matematicamente” impossibile toccare il prezzo dei biglietti. Pochi giorni dopo, la forza delle proteste ha mostrato che il problema non è economico o aritmetico. Il giusto prezzo, in fin dei conti, non è nessun “giusto naturale”, ma quello che la moltitudine riesce a imporre al potere costituito. Il prezzo è una relazione di forza ed è immediatamente politico. È quello che l’economicismo socialista o keynesiano del PT (e di Dilma) non capisce e oggi mostra di non voler capire: la relazione tra l’inflazione dei tassi di interesse (lo spread) e i tassi di inflazione passa per la violenza della moneta. In giugno e ancora oggi, la moltitudine è riuscita a democratizzare dei frammenti della circolazione monetaria e creare una nuova e vera moneta, quella del comune delle lotte.

Il primo decreto della moltitudine brasiliana, in giugno, è stata la destituzione della falsa alternativa che bloccava la generalizzazione metropolitana delle lotte minori attraverso il ricatto del ritorno elettorale della destra, cioè della peggiore elite neoliberale e autoritaria. Magari non immediatamente, ma questa rottura del paradosso lulista da parte del tumulto moltitudinario in Brasile avrà sicuramente conseguenze anche negli altri paesi sud-americani dove la polarizzazione Chavismo – Antichavismo, Kirchenirsmo – antiKierchnerismo continua a funzionare come una macchina di blocco delle lotte. Questo blocco delle lotte non è paradossale solo perché è causato dalla polarizzazione (molte volte più superficiale che reale) tra i “nuovi” governi e la destra che gesticola minacciosa attraverso i media. Il paradosso sta nel fatto che questo meccanismo finisce per pacificare la società e impedire che i “nuovi” governi possano svoltare a sinistra, anche quando – com’è il caso oggi – la mobilitazione potrebbe permetterlo.

La costituzione selvaggia della classe senza nome2

La dinamica elettorale del “lulismo” aveva (e non è detto che sia stata definitivamente distrutta) come base materiale le trasformazioni sociali determinate da una serie convergente di fattori, che possiamo elencare in ordine crescente dal punto di vista delle cause soggettive e in ordine decrescente dal punto di vista dei determinanti materiali. L’integrazione crescente dell’economia e della società brasiliana dentro il capitalismo cognitivo è il primo e principale fattore materiale. Il secondo fattore, sono le politiche di distribuzione del reddito (politiche sociali, valorizzazione del salario minimo reale, creazione di posti di lavoro) che hanno fatto in modo che gli effetti di modernizzazione (terziarizzazione dell’economia) e della globalizzazione (esportazione di commodities) fossero usati – per la prima volta – per la riduzione della disuguaglianza. Il terzo fattore è quello delle politiche trasversali di qualificazione della crescita e di riduzione della disuguaglianza. Si tratta delle politiche di quote razziali, della democratizzazione dell’accesso all’insegnamento superiore, di diffusione delle scuole tecniche, espansione e democratizzazione del credito.

Ci si chiede, nel governo e nel PT, perché tanta insoddisfazione in uno scenario di relativa inclusione sociale di milioni di brasiliani? Perché tante proteste in un momento in cui la crisi del capitalismo non solo è passata al largo dell’economia brasiliana, ma è anche stata un’opportunità per la sua affermazione nazionalista sul mercato mondiale? Quando sono sincere e non solo un riflesso della posizione di potere, queste domande partono dalla premessa che i tumulti hanno luogo solo nei periodi di recessione o penuria. È una specie di sindrome della Bastiglia che riesce e vedere la rivoluzione solo con le masse affamate armate di fucili e forche. Ma in giugno non sono state solo le popolazioni colpite dai grandi eventi o dall’igienizzazione urbana che si sono ribellate. C’è stato un effetto di scala, che ha colto appoggi di un gigantesco spettro sociale. Gli analisti di sinistra non riescono a capire il Kairós della moltitudine brasiliana perché sono prigionieri della logica del tanto peggio tanto meglio. Le manifestazioni dimostrano al contrario che quanto meglio, meglio! Nell’autunno brasiliano abbiamo sentito l’eco dell’autunno caldo italiano: VOGLIAMO TUTTO! L’ingrossarsi e l’approfondimento di una nuova composizione sociale hanno prodotto una soggettività che vuole di più e meglio. Le conquiste sono pretesti per nuove conquiste, succedendosi in una dinamica espansiva dei diritti. Il potere costituente si dà per salti qualitativi, moltiplicando domande e creando nell’immanenza di un vivere meglio, nuove forme di organizzazione e mobilitazione politica.

È qui che ritroviamo la centralità paradossale dei poveri in tutta la sua dimensione. Il capitalismo cognitivo che si dispiega nel Sud (e in Brasile con particolare dinamismo) mobilita i poveri (gli esclusi, il proletariato e sub proletariato metropolitano) in quanto tali: senza previamente omogeneizzarli e omologarli attraverso la mobilitazione salariale di tipo industriale. Cioè, i poveri sono mobilitati in quanto poveri, direttamente sui territori metropolitani o nei meandri della foresta, nelle modulazioni produttive della circolazione. Come si anticipava, il lavoro (la vita) è mobilitato fuori dal rapporto salariale e in Brasile questo ha luogo nel remix delle forme tradizionali di precarietà ereditate dal sottosviluppo con le forme più moderne di flessibilità terziaria. L’effetto delle politiche di distribuzione del reddito e di quelle qualitative di inclusione è paradossale perché, se da un lato è totalmente interno al nuovo ciclo di accumulazione, dall’altro determina effetti di mobilitazione sociale che vanno molto oltre la mobilità ascendente di una nuova base di consumo (di beni o di elezioni). Da una parte, i poveri sono sfruttati in quanto tali, dall’altra, la loro potenza è riconosciuta. Se i poveri non sono più trasformati in “lavoratori”, essi passano a lottare come poveri: giovani, donne, ragazze, neri, índios, informali, favelados, queers.

Con l’arrivo di Dilma al potere, la centralità paradossale dei poveri (i poveri sono riconosciuti per meglio essere sfruttati, inclusi in un processo che funziona per modulazione dell’esclusione: la precarizzazione), passa a un nuovo livello. Quello che con Lula sembrava ambiguo e relativamente aperto, sia per l’immaturità del processo che per la sensibilità politica e personale dello stesso Lula, comincia a passare per un pesante processo di chiusura e omologazione. Da una parte, la chiusura di brecce e ambiguità è generale: a cominciare dalla cultura (dove ha luogo un’inspiegabile restaurazione degli interessi reazionari dell’industria culturale e dell’elite) per finire con il nuovo motto del governo (Brasile, un paese ricco è un paese senza povertà), passando per il disinteresse (o peggio) con le questioni dei diritti umani, dei senza terra, de neri, dei poveri delle favelas e degli indigeni.

La chiusura di Dilma trova certamente una spiegazione nella sua biografia tecnocratica e economicistica (che eventualmente coincide con l’impegno socialista della gioventù guerrigliera). Ma non si tratta solo di questo. Vi sono altri fattori più strutturali. In primo luogo, la crisi del capitalismo globale ha avuto un effetto paradossale sul ciclo brasiliano. Il Brasile, il paese più “stabile” dell’America del Sud, è diventato una nuova frontiera del capitale globale estenuato, passando ad essere sottomesso ad una forte pressione esterna perché i suoi mercati funzionassero come valvola di sfogo degli investimenti globali disorientati. Allo stesso tempo, aumentava internamente una specie di euforia generalizzata sulla nuova condizione emergente: il paese finalmente poteva raggiungere una posizione e uno statuto differenziato nel novero dell’economia e delle istituzioni globali. Il secondo fattore può essere visto come la dimostrazione che, se il capitalismo cognitivo è capace di mobilitare i poveri in quanto poveri per mezzo della frammentazione, questo non significa che i suoi meccanismi di accumulazione possano fare a meno di un certo livello di omologazione dei consumi e della composizione sociale. Il terzo fattore è di tipo politico.

Il patto di governabilità si è trasformato in un consenso sempre più totalitario che ha cominciato a mostrare le unghie a tutti i livelli. Il consenso ha tre forme e due grandi conseguenze (corruzione e crisi del clivage destra – sinistra). La prima forma di questo consenso è la sostanziale convergenza dell’opposizione politica (e anche della stampa) sulla figura della presidente. Dilma è stata considerata una manager competente: grande consenso sulle politiche sociali e convergenza sostanziale sui progetti di sviluppo (le sue tecniche di gestione) e conflitto ai margini sulle timide inflessioni della politica economica. La seconda forma è l’esaurimento definitivo degli elementi di movimento del PT. Il PT è ormai apparso come un partito molto più burocratizzato internamente e visceralmente attaccato al funzionamento dello Stato di quello che si poteva immaginare o intravedere. Ma non si tratta solo del PT: sono tutti i movimenti organizzati (come l’MST) e i partiti dell’estrema sinistra – per non parlare dei sindacati – che sono stati scavalcati, a volte espulsi o in ogni caso incapaci di “leggere” il movimento. La terza forma è quella più strutturale. Si tratta del regime di valori che è diventato egemonico nella coalizione di governo, assunto acriticamente dal PT: non la costruzione di un nuovo orizzonte radioso (magari socialista o solidale), ma l’omologazione dentro il miraggio della “nuova classe media”.

Il governo Lula-Dilma e il PT han finito per credere al marketing che gli ha permesso i grandi successi elettorali come quei manager che finiscono per credere ai falsi bilanci che gli permettono delle buone performance di Borsa. Solo che un giorno succede che il fallimento è inevitabile e il castello di carte del discorso sulla nuova composizione sociale si sfascia. Ed è quello che è successo in giugno. Per farsene un’idea possiamo sostituire alla metafora del castello di carte l’immagine di un bel transatlantico nuovo fiammante, da poco salpato dal porto del sottosviluppo. Eccolo, si chiama Brasil Maior (Grande Brasile) e sta solcando l’oceano della crisi del capitalismo globale, in rotta sicura verso il continente del nuovo sviluppismo. Sul ponte di comando, i partiti dell’alleanza di governo e i passeggeri di prima classe brindano felici all’infrangibile consenso la cui propulsione veniva dai due motori dell’ingegneria della governabilità: il primo è del “neo-sviluppismo”, il secondo è quello della “nuova classe media”. Solo che, la cosiddetta “nuova classe media” non ha trovato per niente interessante il sottoponte di seconda classe e, insieme con i poveri della terza classe, ha invaso il ponte principale. La festa del consenso è finita.

Il primo motore era il neo-sviluppismo. Era il modello accarezzato dal governo Lula e soprattutto da Dilma dopo la crisi del capitalismo globale. Gli intellettuali residuali del PT hanno amplificato questo riferimento retorico, comparando Lula a Vargas. In realtà, è il ritorno dell’economicismo: con incentivi e sussidi miliardari per l’industria “nazionale” (in realtà si tratta delle multinazionali dell’automobilismo e dell’elettrodomestico per inondare le città di macchine) e la noria di grandi opere (mega dighe idroelettriche, sottomarino nucleare, industria estrattiva) e grandi eventi (Confederation Cup, Giornata Mondiale della Gioventù, Coppa del Mondo, Olimpiadi). Il secondo motore, è il regime discorsivo destinato a omologare gli effetti di mobilità sociale ascendente creati dai governi del PT dentro la nozione – economicistica e neoliberale – dell’emergenza di una “nuova classe media”, cioè di un nuovo strato di consumatori, elettoralmente maggioritario, politicamente conservatore e foriero di valori economici di crescita moderata e governabilità politica.

Ma ecco i guasta feste. É proprio la composizione sociale che il regime discorsivo della governabilità, del Brasile “emergente” e “grande”, definiva come la “nuova classe media” che irrompe prepotentemente sul ponte dove si festeggiava in un clima sempre più autoreferenziale e compiaciuto. L’Iceberg è il mostro che sta dentro3 il Transatlantico e sconvolge il determinismo della sua rotta prestabilita e obbligatoria. La moltitudine del lavoro metropolitano si presenta e costituisce come un soggetto capace di produrre e affermare – in modo costitutivo – altri valori, a cominciare dalle grandi metropoli e passando per tutte le città e periferie del paese continentale che è il Brasile. Il movimento di giugno ha affermato che la nuova composizione sociale del Brasile è un terreno di lotta aperto all’alternativa radicale tra la sua omologazione dentro i valori estenuati del capitalismo globale e la formazione selvaggia della nuova composizione del lavoro metropolitano. Quella che abbiamo visto in giugno è stato l’emergenza selvaggia della classe senza nome. Da giugno ad oggi, questa potenza selvaggia sta cercando di inventare le istituzioni del comune metropolitano e lo sta facendo con occupazioni di consigli municipali, manifestazioni e “decreti della plebe”. A Rio questo è molto chiaro, in particolare con le vittorie conquistate contro le rimozioni di favelas e contro le demolizioni previste nella zona dello stadio Maracanã.

Il Comune come lotta

Per finire, bisogna ritornare all’inizio: non si può capire il movimento di giugno e i suoi sviluppi senza cogliere la dimensione qualitativa (e non solo quantitativa) delle manifestazioni. Questa dimensione qualitativa è la grande innovazione, una delle chiavi fondamentali per capire quel che è successo e sta succedendo. Possiamo farlo in tre momenti: le immagini di un documentario nelle manifestazioni di Fortaleza, la dinamica dei cortei di Rio e il ruolo dei “black blocks” (sempre a Rio).

In primo momento, prendiamo il documentario dedicato alle manifestazioni che hanno avuto luogo a Fortaleza4. Possiamo vedere le grandi mobilitazioni iniziali (la più grande mobilitò 90 mila persone) e le polemiche che le attraversarono (in particolare sulla questione della resistenza e della violenza). La manifestazione finale ha luogo durante la partita Spagna-Italia della Confederation Cup. I manifestanti – molto meno numerosi rispetto alla massificazione iniziale – decidono di affrontare la polizia e si organizzano per farlo. Lo dicono apertamente e ne parlano alla telecamera. Uno dei giovani che si preparano, mostra un grande bottiglione di plastica pieno d’acqua, piazzato in mezzo alla strada e spiega: “questo è un bene comune, a disposizione di tutti per spegnerci dentro i lacrimogeni, l’ho imparato guardando i manifestanti di Istanbul”. Quando la pioggia di lacrimogeni comincia, si potranno vedere vari manifestanti usare questo bene comune per affogarci i candelotti, chiudendolo con un piede. In questo episodio, che si è ripetuto un po’ dappertutto, si raccolgono in modo impressionistico una serie di elementi costitutivi delle giornate di giugno. In primo luogo, le giornate di giugno si sono inserite nel ciclo globale di lotte insurrezionali e costituenti (le primavere arabe) attualizzato proprio in maggio dalla rivolta di Istanbul, poco prima dell’incendio brasiliano. Le immagini della lotta della moltitudine turca hanno propiziato la mobilitazione della moltitudine in Brasile e anche le sue forme: praticamente tutte le grandi mobilitazioni delle giornate di giugno (e questo si è ripetuto anche in luglio, anche se in modo meno sistematico in funzione della diminuzione del livello di massificazione) sono state attraversate dalla determinazione di spingere la protesta oltre le tradizionali dimensioni rituali, sul terreno dell’autodifesa e dell’azione diretta.

Un tabù in un paese dove la polizia è abituata ad usare come vuole, in maniera totalmente arbitraria, le armi letali (come del resto ha fatto durante le giornate di giugno a Rio, con una strage – anche all’arma bianca – di dieci abitanti di una favela di Rio, dopo la repressione di una loro manifestazione). Se la stampa, i vari livelli di governo e la “sinistra” istituzionale hanno cercato – come si vede nel documentario – di criminalizzare i “violenti” (chiamati “vandali”), la pratica dell’autodifesa e dell’azione diretta è stata un elemento essenziale e durevole che ha dato al movimento – in tutta la sua diversità – la sua dinamica e le sue dimensioni costituenti. Il bottiglione d’acqua in mezzo alla strada a disposizione della moltitudine in lotta è proprio l’immagine di quello che possono essere il comune e la sua città.

Il secondo momento che aiuta a farci un’idea del movimento è la schematica ricostruzione della dinamica dei cortei a Rio, in giugno. Mentre a São Paulo la mobilitazione ha riunito molta gente sin dall’inizio ed ha affrontato una forte repressione da parte della polizia, la prima manifestazione a Rio ha riunito poche centinaia di persone. La novità è stata che una parte consistente delle 300 persone iniziali era decisa a non limitarsi al rito della passeggiata, cioè aveva già preso la decisione – indifferente al livello quantitativo della mobilitazione – di scontrarsi con la polizia e a “sanzionare” i simboli del potere politico e finanziario. Nel corteo di pochi giorni dopo c’erano 1.000 persone e la stessa determinazione. Nel terzo corteo saranno 10.000 e la stessa determinazione. Mentre il numero di partecipanti cresceva esponenzialmente, il potere non sapeva più che carta giocare e il 17 giugno, due settimane dopo l’inizio del movimento, il centro di Rio è invaso da più di un milione di manifestanti. Cercando di evitare le provocazioni, la polizia si mantiene distante e quasi invisibile … ma non servirà a niente. Invece di sciogliersi, la manifestazione prosegue in direzione alla sede del parlamento dello Stato di Rio (ALERJ), dove il contingente di polizia si troverà – per un buon momento – incapace di reggere l’assalto migliaia e migliaia di giovani. Tre giorni dopo, il 20 giugno, i manifestanti a Rio saranno 2 o 3 milioni. Questa volta la polizia inverte la strategia e si schiera massicciamente davanti alla sede del Municipio (e sulla strada di una delle partite della Confederation Cup). Non cambierà nulla. Nonostante il terreno sfavorevole (grandissimi spazi ) e la presenza di blindati, cavalleria ecc. migliaia di giovani affronteranno la polizia e sanzioneranno banche, simboli del potere pubblico e particolarmente della FIFA. Ne seguiranno rastrellamenti generalizzati in tutta la regione del centro della città … che susciteranno ancora più indignazione e mobilitazione.

Il terzo momento ha luogo durante gli scontri che segnano le proteste contro la finale della Confederation Cup a Rio. Si tratta dei giovani (la maggioranza della periferia) che hanno cominciato ad arrivare nelle manifestazioni già mascherati e definendosi come Black Blocs (nella manifestazione del 30 giugno, in occasione della finale della Confederation Cup). Chiaramente, l’immaginario è ancora una volta globale e sembra rinchiudersi dentro uno stile di manifestare e d’organizzazione tipico degli anarchici e degli autonomi europei. In realtà non è esattamente così. Mettersi le maschere prima di arrivare alle manifestazioni da parte di queste centinaia di ragazzi della periferia – molti dei quali di colore – significa (oltre alla protezione contro i gas) affermare una doppia determinazione. In primo luogo, impedire l’identificazione è la condizione necessaria per un giovane della periferia per poter lottare democraticamente senza correre il rischio di “scomparire misteriosamente”. In secondo luogo, lo scontro con la polizia si mantiene allo stesso tempo determinato (auto-difesa con scudi, uso di bottiglie incendiarie, fionde e potenti petardi oltre ai classici sampietrini) e basso: le barricate sono fatte con l’incendio delle immondizie e gli attacchi alla proprietà si concentrano sulle banche e qualche negozio di grandi catene. Lo scontro è totalmente interno alla costituzione democratica della pace ed è così che ha finito per essere accolto dalla totalità del movimento (salvo i partiti e i movimento organizzati).

Dopo le grande manifestazioni di giugno, i ragazzi del Black Bloc sono diventati il soggetto fondamentale della diffusione del movimento – sempre a Rio. Presenti nelle occupazioni stanziali (del Consiglio Municipale e della spiaggia di Leblon sotto la residenza del Governatore), hanno partecipato a quasi tutte le mobilitazioni quotidiane, occupando la città e costruendo una direzione dal basso, totalmente interna all’agencement del movimento: città – internet – Black Blocs. Sul finire del mese di luglio e la prima metà di agosto, i ragazzi vestiti di nero, che hanno trovato nelle bandiere dell’anarchia i simboli irrecuperabili di un’autonomia selvaggia sono capaci di moltiplicare e differenziare le mobilitazioni, dalle occupazioni stanziali agli assalti al palazzo del governo, scontri nei quartieri più lussuosi della spiaggia e o i cortei chilometrici che attraversavano le greggi dei pellegrini durante la visita del Papa. Come abbiamo detto, i tentativi di criminalizzarli (molti di questi condotti dai partiti della sinistra di governo) e trattarli come una componente minoritaria, isolata, violenta e marginale non hanno attecchito. Il funzionamento assassino dello Stato e della sua polizia, una volta che la breccia è stata aperta, funziona a rovescio: di fronte alla capacità del movimento di appropriarsi della critica della violenza contro i poveri, le armi della criminalizzazione sembrano spuntate.

Uno dei momenti più interessanti dell’estetica politica dei Black Blocs di Rio è stato il primo tentativo di occupazione del Consiglio Comunale. Durante una manifestazione che aveva come obiettivo l’occupazione permanente del Parlamento dello Stato, un folto gruppo di ragazzi mascherati ha depistato la sorveglianza della polizia e ne ha approfittato per occupare il Consiglio Comunale da dove sono stati espulsi violentemente poco tempo dopo (non senza una forte resistenza dei manifestanti accorsi sul posto). Il giorno dopo, la stampa denuncerà i danni causati dai manifestanti e pubblicherà la foto di un quadro danneggiato. Si tratta del ritratto di un generale sulla cui fronte un artista selvaggio ha disegnato – con un tratto nitido – due corna. Rapidamente, tutte le reti sociali riconoscono nel quadro il generale tagliatore di teste che represse le rivolte messianiche di Canudos agli albori della repubblica brasiliana (alla fine del XIX secolo). Il generale con le corna è la figura ancora attuale della polizia che massacra la vita dei poveri tutti i giorni delle favela e nelle periferie. Nelle reti si chiederà la protezione formale del quadro con le corna come una vera opera d’arte e la stampa lo dimenticherà rapidamente.

È una situazione impensabile fino a poco tempo fa: la moltitudine è capace di costruire nelle sue deterritorializzazioni e riterritorializazioni uno nuovo tipo – sconosciuto in Brasile – di pace. I ragazzi e le ragazze del Black Bloc sono riconosciuti da tutti come l’espressione, più potente perché non unica, del movimento e sono loro che trascinano dietro di loro tutti o giovani militanti. Se negli anni 2000 dicevamo che “Lula è molti”, oggi, ognuno di questi ragazzi e di queste ragazze è una moltitudine.

(Rio de Janeiro, 17 agosto 2013, traduzione spagnola a: https://n-1.cc/blog/view/1751926/vogliamo-tutto-las-jornadas-de-junio-en-brasil-la-constitucion-salvaje-de-la-multitud-del-trabajo-metropolitano)

1 Il film 100 mil sul 17 giugno a Rio di Jefferson Vasconcelos, http://vimeo.com/68873185#

2 Stiamo usando la bella intuizione di Hugo Albuquerque http://descurvo.blogspot.com.br/2012/09/a-ascensao-selvagem-da-classe-sem-nome.html

3 Su questa dimensione “interna” delle lotte contro ci sarebbe da sviluppare un paragrafo specifico che non abbiamo qui il tempo di scrivere. Diremo comunque che l’incapacità dei partiti della sinistra di opposizione di “dirigere” il movimento (senza contare le situazioni nelle quali sono stati espulsi dalle manifestazioni e l’inadeguatezza delle categorie teoriche) è una dimostrazione di come tutte le ipotesi che lavoravano a partire dall’affermazione di un fuori ideale sono state tanto spiazzate quanto la sinistra di governo.

4 Il documentario si chiama Com Vandalismo, è stato prodotto da Nigeria Audiiovisual ed accessibile suhttp://www.youtube.com/watch?v=KktR7Xvo09s. Fortaleza è la capitale dello Stato del Ceará, nel Nordest del Brasile e ha una popolazione di 2 milioni e mezzo di abitanti.

05 Settembre 2013

InfoAut

 
Giuseppe Cocco e Bruno Cava, “Vogliamo tutto! Le giornate di giugno in Brasile: la costituzione selvaggia della moltitudine del lavoro metropolitano pubblicato il 12-03-2013 in InfoAut, su [http://www.infoaut.org/index.php/blog/approfondimenti/item/8875-vogliamo-tutto-le-giornate-di-giugno-in-brasile-la-costituzione-selvaggia-della-moltitudine-del-lavoro-metropolitano-–] ultimo accesso 05-09-2013.

 

I commenti sono stati disattivati.