Raúl Zibechi crede che dalla mobilitazione delle comunità zapatiste, che ha avuto luogo lo scorso mese di dicembre, i movimenti antisistema e anticapitalisti dell’America Latina dovrebbero ricavare importanti insegnamenti, con lo scopo di rompere “l’accerchiamento” del progressismo. Tra questi, l’importanza dell’impegno militante o la necessità di persistere in ciò che ciascuno crede.
La mobilitazione delle comunità zapatiste del 21 dicembre e i tre comunicati dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) del 30 dello stesso mese sono stati ricevuti con allegria e speranza da molti movimenti antisistema e di lotta anticapitalisti dell’America Latina. I mezzi di comunicazione di questi movimenti hanno immediatamente rispecchiato nelle proprie pagine l’importanza della massiccia mobilitazione che è avvenuta in momenti difficili per chi continua ad impegnarsi a resistere al sistema di morte che ci sgoverna.
Gli ultimi anni sono stati particolarmente complessi per i movimenti che si impegnano a costruire un mondo nuovo dal basso. Nella maggior parte dei paesi dell’America del Sud la repressione contro i settori popolari non è cessata, nonostante che la maggioranza dei governi si dichiari progressista. Parallelamente hanno messo in moto un insieme di “politiche sociali” destinate, secondo quanto dicono, a “combattere la povertà”, ma che in realtà cercano di impedire l’organizzazione autonoma dei poveri o di neutralizzarla quando ha già raggiunto un certo grado di sviluppo.
Le politiche sociali progressiste, come tra gli altri lo dimostrano bene i casi di Argentina, Brasile e Uruguay, non sono riuscite a far diminuire la disuguaglianza, né a distribuire la ricchezza né a realizzare riforme strutturali, ma sono state molto efficaci al momento di dividere le organizzazioni popolari, a introdurre cunei nei territori che i settori popolari controllano e in non pochi casi a sviare gli obiettivi della lotta verso questioni secondarie. Non hanno toccato la proprietà della terra e di altri mezzi di produzione. Le politiche sociali cercano di attenuare gli effetti dell’accumulazione di rapina senza modificare le politiche che reggono questo modello: le miniere a cielo aperto, le monocolture, le dighe idroelettriche e le grandi opere di infrastruttura.
Con le eccezioni del Cile e del Perù, dove la lotta del movimento studentesco e la resistenza contro le miniere continuano ad essere vive, nella maggior parte dei paesi l’iniziativa è passata ai governi, i movimenti antisistema sono più deboli e sono più isolati, ed abbiamo perso la prospettiva strategica. Il lavoro territoriale urbano, attraverso il quale sono state lanciate formidabili offensive contro il neoliberismo privatizzatore, si trova in breve tempo in un vicolo cieco ogni volta che i ministeri per lo sviluppo sociale, dell’economia solidale ed altri, hanno incominciato a infiltrarsi nei territori in resistenza con programmi che vanno dai trasferimenti monetari alle famiglie povere fino ai diversi “aiuti” per le iniziative produttive. Inizialmente i movimenti ricevono questi aiuti con la speranza di rafforzarsi, ma in poco tempo vedono come la demoralizzazione e la disgregazione si diffonde tra le proprie fila.
Che può fare un collettivo di base quando in un quartiere porta avanti un liceo popolare, con enorme sacrificio di lavoro collettivo, osservando come poco dopo il Governo crea un altro liceo nelle vicinanze, con migliori infrastrutture, corsi identici e ponendogli perfino nomi di riconosciuti rivoluzionari? La risposta è che non lo sappiamo. Che ancora non abbiamo appreso a lavorare in quelli che sono stati i nostri territori e che ora sono spazi invasi da legioni di lavoratori e lavoratrici sociali con discorsi molto progressisti, e perfino radicali, ma che lavorano per quelli in alto.
Lo zapatismo è uscito rafforzato da questa politica di accerchiamento e annichilimento, militare e “sociale”, dove lo stato si è impegnato a fondo a dividere attraverso gli “aiuti” materiali come complemento delle campagne militari e paramilitari. Per questo molti e molte di noi hanno accolto con enorme allegria la mobilitazione del giorno 21. Non perché sospettassimo che non erano più lì, qualcosa che può credere solo chi si informa attraverso i media, ma perché abbiamo verificato che è possibile attraversare l’inferno dell’aggressione militare unita alle politiche sociali contro-insurrezionali. Conoscere, studiare, comprendere l’esperienza zapatista è più urgente che mai per noi che viviamo sotto il modello progressista.
È certo che il progressismo giochi un ruolo positivo rispetto al dominio yankee, cercando una certa autonomia per uno sviluppo capitalista locale e regionale. Per i movimenti antisistema, nonostante ciò, coloro che vogliono seguire il cammino della socialdemocrazia non si differenziano in assoluto dai precedenti governi. È necessario comprendere questa dualità all’interno di uno stesso modello: la collisione progressista con gli interessi di Washington ma all’interno della stessa logica di accumulazione attraverso il saccheggio. In senso stretto si tratta di una disputa per chi sono i beneficiari dello sfruttamento e dell’oppressione di quelli in basso, ruolo nel quale le borghesie locali e gli amministratori dei partiti di “sinistra” alleati con un certo sindacalismo di impresa, reclamano una parte del bottino.
Il percorso zapatista fornisce qualche insegnamento a noi, movimenti e persone che vivono “accerchiate” dal progressismo.
In primo luogo, l’importanza dell’impegno militante, la fermezza dei valori e dei principi, il non vendersi né vacillare quantunque il nemico appaia forte e potente e quantunque i movimenti antisistema siano in un certo momento isolati e deboli.
Secondo, la necessità di persistere in ciò che ciascuno crede e pensa, aldilà dei risultati immediati, dei supposti successi o fracassi momentanei, in contesti che molte volte sono fabbricate dai media. Persistere nella creazione di movimenti non istituzionalizzati né prigionieri dei tempi elettorali è l’unico modo di costruire con solidità e per lungo tempo.
Terzo, l’importanza di un modo differente di fare politica, senza il quale non c’è nulla aldilà del mediatico, dell’istituzionale o dell’elettorale. Un intenso dibattito attraversa non pochi movimenti sudamericani sulla convenienza di partecipare alle elezioni o di istituzionalizzarsi in vari modi, come forma per evitare l’isolamento del lavoro territoriale e per entrare nella “vera” politica. Gli zapatisti ci mostrano che ci sono altri modi di fare politica che non ruotano intorno all’occupazione delle istituzioni dello stato e che consistono nel creare, dal basso, forme per prendere decisioni collettivamente, per produrre e riprodurre le nostre vite in base al “comandare obbedendo”. Questa cultura politica non è adeguata a chi vuole usare la gente comune come scalini per aspirazioni individuali. Per questo tanti politici e intellettuali del sistema rifiutano questi nuovi modi, in cui debbono sottomettersi al collettivo.
Quarto, l’autonomia come orizzonte strategico e come pratica quotidiana. Grazie al modo con cui le comunità risolvono le proprie necessità, abbiamo appreso che l’autonomia non può essere solo una dichiarazione di intenti (per quanto sia importante) ma deve essere posta nell’autonomia materiale, dal cibo e dalla salute fino all’educazione e al modo di prendere le decisioni, ossia di governarci.
Negli ultimi anni abbiamo visto esperienze ispirate dallo zapatismo fuori del Chiapas, anche in alcune città, fatto che dimostra che non si tratta di una cultura politica che è valida solo per le comunità indigene di quello stato messicano.
06-01-2013
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca da: |
Raúl Zibechi, “La tenaz persistencia zapatista” pubblicato il 06-01-2013 in Gara, su [http://gara.naiz.info/paperezkoa/20130106/381125/es/La-tenaz-persistencia-zapatista] ultimo accesso 09-01-2013. |