Il massacro di Río de Janeiro ha rivelato una verità che il mondo si rifiuta di nominare: il genocidio antinegro. Dal Sudan fino al Chocó, dal Congo fino all’Argentina, il razzismo strutturale continua ad organizzare coloro che possono vivere e coloro che devono morire. Non sono tragedie isolate, sono capitoli di un medesimo progetto di sterminio. Nominarlo è il primo atto di giustizia.
A Río de Janeiro, la polizia è entrata nella favela come chi entra in un territorio nemico. Quella che è seguita non è stata un’operazione di sicurezza: è stato un massacro. Più di 130 persone assassinate, la maggioranza giovani neri, giustiziati con la stessa impunità con cui, da secoli, si sparge sangue nero in nome dell’ordine. La scena si ripete con differenti accenti, idiomi e bandiere: nel Chocó colombiano, dove comunità afrodiscendenti sono sfollate per il fuoco incrociato di paramilitari e stato; nell’est del Congo, dove milioni di vite nere sono state e sono annichilite nel silenzio del mondo; nel Sudan, dove la guerra civile si traduce in una pulizia etnica contro popolazioni nere invisibilizzate dalla stampa internazionale.
Diversi territori, un medesimo modello. Ciò che li unisce è il razzismo antinegro come struttura globale, questo sistema che decide che vite valgono e quali sono da scartare. Ciò che li unisce è la continuità del genocidio antinegro, una categoria che non figura nelle dichiarazioni dell’ONU, che non appare nei titoli dei quotidiani, che non ha memoriali né minuti di silenzio, ma che sostiene l’ordine del mondo.
Il genocidio antinegro non è un episodio né un eccesso. È un regime di lunga durata. Nacque con le navi negriere e si consolidò nei codici coloniali, nelle piantagioni, nelle repubbliche creole che si autoproclamarono libere mentre mantenevano intatte le gerarchie razziali. È il medesimo regime che, in nome del progresso, ha fatto tabula rasa di interi popoli in Africa, e che in America Latina continua ad operare ogni volta che un proiettile della polizia attraversa un corpo nero e la stampa lo giustifica dicendo che “aveva dei precedenti”. Ogni volta che diventa naturale che la povertà abbia un colore. Ogni volta che si nega l’afroargentinità o si riducono i popoli originari alla categoria folcloristica di “minoranze”, come se la nazione bianca fosse una certezza e non una violenta costruzione.
Il genocidio antinegro si riproduce anche nella grammatica del potere. Nei discorsi d’odio, sì, ma anche nelle omissioni del progressismo che preferisce parlare di “vulnerabilità” prima che di razzismo. Nei titoli che enumerano morti senza menzionare il loro colore. Nei governi che amministrano la disuguaglianza come se fosse un problema tecnico e non la conseguenza di un ordine razziale.
Nominare il genocidio antinegro non è una questione semantica, è un atto politico. È rompere con il patto di silenzio che converte lo sterminio in statistica e l’indignazione in trending topic. È segnalare che dietro ad ogni corpo nero assassinato c’è una storia di spoliazione e una struttura di potere che beneficia di quella morte. È intendere che il razzismo non solo uccide, ma organizza il mondo: chi accede all’acqua, chi alla terra, chi alla voce, chi al dolore.
In Argentina, questo medesimo patto del silenzio opera sotto un’altra forma: il negazionismo. Ci ripetono che “qui non ci sono neri”, che “i popoli originari sono minoranze”, che “la mescolanza ci ha salvato dal razzismo”. È il mito fondativo di una nazione bianca, europea, civilizzata, che ha cancellato dal proprio racconto le genealogie africane e indigene che la abitano. Questa cancellazione non è stata un errore né un’omissione; è stata una politica di stato. Anche il genocidio antinegro si esprime nell’impossibilità di nominare il nero come parte costitutiva di quanto è argentino.
Oggi, quando l’ultradestra mondiale riscrive il linguaggio dell’odio e le democrazie diventano complici per omissione, l’urgenza è recuperare la parola giusta. Dire genocidio antinegro non è esagerare: è dire la verità. Perché quello che succede a Río, nel Chocó, nel Congo o in Sudan non sono tragedie isolate, sono capitoli di una medesima storia di sterminio. E perché anche il silenzio, l’indifferenza e il distacco uccidono.
Foto: Il popolo nero piange, una volta di più, i suoi morti. EFE
31 ottobre 2025
Página/12
| Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
| Federico Pita, “Genocidio antinegro: Lo que el poder no quiere nombrar”, pubblicato il 31-10-2025 in Página/12, su [https://www.pagina12.com.ar/870327-lo-que-el-poder-no-quiere-nombrar] ultimo accesso 12-11-2025. |







