Colombia: La generazione che ha perso la paura


Víctor Linares

I giovani della Colombia, con poco o nulla da perdere, sono protagonisti di una delle esplosioni con maggior repressione poliziesca degli ultimi anni in America Latina.

Indumento comodo, documento d’identità, bancomat, bottiglia di bicarbonato con acqua, fazzoletto, mascherina, qualcosa da mangiare, acqua, quaderno, macchina fotografica, giubbotto, maschera antigas, casco e tessera della stampa. Questo è quello che custodisce nello zaino Julieth Rojas, di 20 anni, ogni volta che va a coprire le manifestazioni che sono incominciate il 28 aprile. Migliaia di persone, in gran parte giovani, sono scese nelle strade contro una riforma tributaria che voleva regolare le imposte sulle famiglie più povere, che sono più della metà della popolazione e che già avevano seri problemi economici prima della pandemia. La repressione poliziesca non ha tardato a giungere, ma la Rojas è ferma: “La gente ha più paura di rimanere zitta che la uccidano”.

La pressione delle proteste ha obbligato lo stato a ritirare la riforma tributaria dopo quattro giorni di mobilitazioni e 21 omicidi di manifestanti, secondo quanto ha pubblicato l’ONG Temblores. Il ministro delle Finanze e la titolare degli Esteri si sono dimessi e il presidente della Colombia, Iván Duque, ha annunciato un tavolo di negoziato con il comitato nazionale dello sciopero nazionale, dove si riuniscono le organizzazioni convocanti, e anche con il resto dei settori che partecipavano alla protesta. Nonostante ciò, molti giovani hanno continuato a stare nelle strade non sentendosi rappresentati e alcuni hanno chiesto riforme più profonde, come quella della polizia.

Secondo un rapporto dell’osservatorio sulla violenza della polizia di Temblores, la polizia ha commesso 289 omicidi tra il 2017 e il 2019

Le opportunità di futuro per la gioventù colombiana sono andate riducendosi se si osserva il deterioramento delle sue condizioni sociali e la sua percezione di quello che succede nel paese. Secondo dati ufficiali del 2019, il 43% dei giovani minori di 24 anni sono poveri, otto punti più del tasso nazionale. La mancanza di opportunità è anche evidente con una disoccupazione giovanile che ha sfiorato il 30 per cento durante i primi mesi di isolamento. Questo si aggiunge al clima di insicurezza in cui vivono. Durante il 2019, l’omicidio è stata la prima causa esterna di morte tra la popolazione dai 15 ai 24 anni, con quasi 4.000 casi.

Prima linea

Julieth Rojas è volontaria in Primera Línea, un media alternativo che è nato durante le proteste di novembre 2019 per raccontare gli abusi dello Squadrone Mobile Antisommossa (ESMAD), unità speciale della polizia che viene dispiegata per contenere le manifestazioni e che sistematicamente fa un uso eccessivo della forza. Secondo un rapporto dell’osservatorio sulla violenza della polizia di Temblores, la polizia ha commesso 289 omicidi tra il 2017 e il 2019. Uno dei primi servizi della Rojas è stato su una di queste morti.

Julieth Rojas è la più giovane delle quattro fotogiornaliste che ha questo media, che con più di 300.000 seguaci in Instagram è un riferimento dentro il movimento. Questa studentessa precisa che il nome del media fa anche riferimento ai manifestanti che si collocano con scudi artigianali di fronte all’ESMAD quando ci sono cariche della polizia per dar tempo al resto dei manifestanti di cercare rifugio. Questa strategia è stata anche usata nelle proteste del Cile del 2019.

La Rojas e il suo gruppo si riuniscono ogni volta che ci sono manifestazioni per ispezionare i luoghi delle convocazioni e così ripartirsi le zone per fare una migliore copertura. Nel suo caso, di solito copre Plaza Bolívar. In questo punto si trova il Congresso, il Palazzo di Giustizia e anche il municipio di Bogotá. Questo fa sì che ci sia una maggiore concentrazione di polizia. La giovane spiega che ti possono “rinchiudere molto facilmente” per il tipo di strade che ci sono nei dintorni. Quando le viene domandato perché sceglie sempre questa zona, dopo una piccola risata, risponde: “Uno diventa masochista”.

Nonostante abbia un giubbotto e il tesserino della stampa, l’hanno “gassata terribilmente”, spiega facendo riferimento ai gas lacrimogeni, e ricorda che all’inizio non avevano strumenti di protezione e finivano “soffocati”. È giusto in quel momento che entrano in gioco le bottiglie che custodisce nel suo zaino. “Quando c’è casino (cariche della polizia), metto il bicarbonato con l’acqua nel fazzoletto e me lo metto sulla faccia, questo aiuta moltissimo”, riconosce. La giovane fotografa racconta come, nelle sue prime coperture, si metteva vicino all’ESMAD cercando protezione ma anche così non si liberava dal gas né che la puntassero con le loro armi stordenti. “Uno pensa che il giubbotto e il tesserino della stampa aiutino, ma a loro non importa nulla”.

La polizia ha anche casi aperti di violenza sessuale su manifestanti, per cui per giovani come la Rojas documentare questo tipo di proteste presuppone un rischio più grande. “Dà molta più paura”, riconosce mentre ricorda un caso nel quale la polizia ha fermato una ragazza in un Comando di Attenzione Immediata (piccoli commissariati che ci sono in ogni quartiere). “Le hanno fatto firmare un documento affinché non dicesse nulla di quello che aveva passato”. Per questo, esce sempre in compagnia di qualche amico o di un’altra giornalista del suo gruppo.

Questa studentessa dell’ultimo anno di giornalismo riesce a pagare “con le unghie” i 5.000 euro che costa l’immatricolazione nella sua università privata. Quando parla della protesta con la gente della sua università, sente che molti la vivono con una certa distanza: “Sono persone che hanno molti privilegi, la guerra non li ha attaccati direttamente né la mancanza di opportunità”. La Rojas sente che il governo e i media occultano quello che succede nel paese: “Femminicidio, sfollamento forzato, assassinii di dirigenti sociali…”. Quando è arrivata la riforma tributaria, secondo quanto dice, i media alternativi hanno mostrato quello che potrebbe succedere se si approvava e “la gente si è messa insieme, questo è stato il fattore scatenante”. Anche se crede che i cambiamenti richiederanno molto tempo, spera che alla fine “valga la pena” di essere scesi in strada. Riflette un momento mentre le si domanda quale immagine le rimarrebbe di quanto visto finora, ma subito dice: “L’amore delle persone per la Colombia”.

“Ci stanno uccidendo”

La Difensoria del Popolo, istituzione dello stato responsabile di vegliare sul compimento dei diritti umani, ha documentato 42 morti durante le prime due settimane di proteste. Da parte sua, l’ONG Temblores ha registrato 40 casi di omicidio commessi probabilmente dalla polizia. Le reti sociali si sono riempite di video dove si denunciavano gli abusi polizieschi con messaggi come “Ci stanno uccidendo” e “SOS Colombia”.

Cali, la terza città più grande della Colombia, è stata lo scenario di alcune delle manifestazioni più importanti del paese, nella loro grande maggioranza pacifiche. Ma è stata anche l’epicentro di scontri tra manifestanti e l’ESMAD che hanno portato a occupare le prime pagine dei media internazionali. “Cali è stata la punta di lancia della resistenza”, afferma David Erazo, studente di sociologia che lavora anche come distributore di cibo a domicilio, con cui guadagna tre euro alla settimana. Erazo si è unito alla protesta fin dal primo giorno ed è stato testimone di alcune di queste situazioni.

Secondo dati del 2018 del municipio di Cali, 205.000 persone sfollate risiedono nella città dopo essere fuggite dalla guerra

“Stavamo facendo colazione e un compagno ci ha detto attraverso WhatsApp che stava arrivando un blindato”, dice con un tono calmo, mentre chiarisce che è una cosa abituale vedere blindati nelle università pubbliche e che “ha precedenti esperienze” di quello che bisogna fare. Erazo continua spiegando che in quel momento, alcuni suoi compagni che avevano degli scudi caserecci, alcuni fatti con gli stessi segnali del traffico, hanno fatto una prima linea di difesa “per evitare gli attacchi più diretti”. Confessa che, anche se ha cercato di registrarlo con la sua macchina fotografica, la cosa principale in queste situazioni è “correre in un luogo lontano” e aspettare che tutto si calmi.

In questa occasione ha avuto fortuna e ha evitato i proiettili di gomma, qualcosa che non succede sempre. Ricorda che una volta ha ricevuto un colpo alle spalle. Questi scontri durano ore, spiega, e anche se si suppone che la polizia abbia l’ordine di non puntare su zone sensibili del corpo, “loro sparano direttamente al viso”. I corpi di polizia in Colombia dipendono dal Ministero della Difesa e non da quello degli Interni, per cui c’è un alta impunità degli abusi di polizia. Secondo Temblores, solo due delle 127 indagini aperte per omicidio tra il 2017 e il 2019 sono finite con una condanna definitiva.

Erazo evidenzia come la gioventù dei quartieri più poveri della città sia scesa in modo spontaneo e che, secondo lui, i giovani sono quelli che più “hanno nutrito” la protesta. Continua spiegando che Cali è una città dove si concentrano molte persone che sono state sfollate dal conflitto e sono giunte in zone “con un accesso quasi nullo ai servizi basilari come fognature ed elettricità”. Secondo dati del 2018 del municipio di Cali, 205.000 persone sfollate risiedono nella città dopo essere fuggite dalla guerra. Crede che “l’esclusione e la mancanza di opportunità” che affrontano questi giovani può spiegare perché loro “sono diventati la bandiera dello sciopero”. Nel 2002 ci sono elezioni presidenziali e questo manifestante ha la speranza che sarà il momento per “focalizzare tutta questa rabbia in un governo popolare”.

Disposti a giungere fino alla fine

Nia preferisce non dire il proprio cognome, ha 20 anni e né studia né lavora. Fa parte di questo gruppo che è conosciuto come “Nini”, che rappresenta il 33% della gioventù tra i 14 e i 28 anni. Vive in uno dei quartieri più poveri di Cali. Prima lavorava mettendo etichette a barattoli di pittura in un’impresa ma l’hanno licenziata quando è giunta la pandemia. Durante la protesta, si è unita agli Scudi Neri, un gruppo urbano che fa parte della prima linea di resistenza che effettua blocchi in alcune strade della città.

Questi blocchi sono una strategia di questo tipo di gruppi per far pressione sul governo giacché provoca scarsità di alimenti, medicine e benzina nella stessa Cali ma anche nelle altre principali città del paese. Da parte sua, il presidente della Colombia ha ribadito che sono illegali e ha reso chiara la posizione dell’esecutivo: “Anche se non sono fatti con armi o aggressioni fisiche, sono di per sé stessi degli atti che sono violenti”.

Tra la firma degli accordi di pace nel 2016 e l’aprile del 2021, ci furono 317 omicidi di dirigenti indigeni, secondo i dati dell’Istituto di Studi per lo Sviluppo e la Pace (Indepaz)

Nia si dedica ad appoggiare differenti blocchi della città e ha delle funzioni molto specifiche quando c’è uno scontro con l’ESMAD. “Aiuto a respingere gli effetti dei gas (candelotti di gas lacrimogeni), con il latte e l’acqua con bicarbonato”, spiega. Quando le si domada che pensa di coloro che criticano questa forma di protesta, nella sua risposta si nota rabbia: “Gli direi che smettano di essere così tiepidi, poco empatici e ignoranti, che non gli importa del paese né di quello che sta succedendo”.

Le richieste di questi gruppi sono diverse. Per lei, quello che vogliono è un “vero dialogo di cambiamento” e se questo non avviene, chiede la rinuncia di Duque e Uribe. “Che si abbassi al salario minimo la retribuzione dei congressisti, senatori e di tutta la gente del governo affinché vivano con 800.000 pesos (180 euro) per vedere se sono capaci [di vivere] come il popolo”, dichiara con spirito acceso. Il salario minimo in Colombia nel 2021 è fissato a circa 202 euro, sei euro più dell’anno precedente.

Si accomiata con una dichiarazione breve ma decisa: “Tutti noi siamo disposti a arrivare fino alla fine, disposti a dare la vita”.

Resistenza dalla terra

I popoli indigeni sono un fuoco di resistenza in qualsiasi nuova mobilitazione e anche in questa occasione si sono uniti alla protesta. Juan Sebastián Salazar, di 23 anni, fa parte della guardia indigena del popolo Kite Kiwe, le cui terre sono in una delle regioni più colpite dalla guerra. Salazar è uno dei 20.000 difensori della terra che ha questa guardia in questa zona e la sua funzione è vegliare sui diritti umani nel paese. “Questo governo ci tiene piegati, per questo ci uniamo al resto dei settori e saremo vittoriosi come popolo”, afferma. La Colombia è uno dei peggiori paesi nel difendere i diritti umani, ma questo è ancor più pericoloso per i giovani come Salazar giacché sono i tipi dirigenze più perseguitate durante gli ultimi anni. Tra la firma degli accordi di pace nel 2016 e l’aprile del 2021, ci sono stati 317 omicidi di dirigenti indigeni, secondo i dati dell’Istituto di Studi dello Sviluppo e la Pace (Indepaz).

Per Salazar, partecipare alla politica più che un diritto, è una tradizione. “Dagli otto anni, nella scuola incominciamo con la formazione politica”. Forse per questo oggi è uno dei dirigenti della sua comunità e come tale, ha le sue proprie richieste per il suo popolo: “Un territorio dove non ci sia violenza da parte dei gruppi armati illegali, con nuove opportunità, questo è quello che come giovani sogniamo”, dichiara, nel momento in cui chiede che siano rispettati i loro “usi e costumi”. Nonostante ciò, considera che sia difficile con un governo che “giunge al negoziato e dopo non rispetta” mentre in ogni protesta sono loro che si mettono “a rischio”.

Questa esplosione non è stata l’eccezione. Di fronte ai costanti scontri che c’erano con la polizia a Cali, una carovana di circa 300 persone della guardia indigena ha deciso di uscire dalle proprie terre e di accompagnare i manifestanti nell’epicentro della protesta. Un po’ prima di giungere nella città, civili armati hanno attaccato il gruppo, probabilmente con la permissività della polizia che è stata presente all’attacco senza difendere i manifestanti. “Siamo giunti nel luogo dove non ci hanno lasciato passare, siamo scesi a dialogare con le persone e lì delle auto Toyota blindate si sono lanciate su di noi”, riferisce Salazar.

Dodici persone sono rimaste ferite, tra loro una dirigente che ha ricevuto due proiettili nell’addome e ha dovuto essere ricoverata in terapia intensiva. “È stata un’esperienza molto dura, perché noi come guardia indigena abbiamo solo i bastoni dell’autorità, e avere di fronte delle persone armate dà molta rabbia”. Anche il dirigente indigeno è uno di coloro che credono che per molti giovani questa protesta sia stata la prima ed evidenzia come l’esempio della lotta dei popoli indigeni abbia potuto essere importante per questo. “Noi siamo un riferimento nel fare resistenza, allora i giovani hanno osato unirsi a questa grande causa, a questa grande lotta”, riflette. 

Giovanicidio diretto

La generazione di giovani che hanno poco da perdere si sente stanca di essere gli invisibili di questo sistema. Questo fa sì che la fiducia verso lo stato sia andata molto in pezzi. Secondo quando segnala un’inchiesta dell’Osservatorio della Gioventù in Iberoamericana, il 72% sente che lo stato sia “poco e per nulla democratico”.

Per Germán Muñoz, professore e ricercatore nell’Università Nazionale sulla gioventù, c’è una intenzione diretta di provocare questa frattura: “È una politica di stato contro i giovani, di assassinio sistematico e pianificato”. Muñoz è anche membro della Rete Iberoamericana di dibattito e azione collettiva di fronte al giovanicidio e uno studioso delle esplosioni sociali degli ultimi anni nella regione. Spiega che in Colombia c’è una “sollevazione popolare” della gioventù dei quartieri più poveri. “Hanno fame, rabbia, sono disgustati dalla violenza della polizia, non ne possono più”. Critica anche i metodi dello stato: “È una guerra di pietre contro armi sofisticate di ultima generazione con un’alta letalità”. Muñoz si riferisce ai blindati equipaggiati con munizioni stordenti e pallettoni che sono “munizioni letali” e che sono state create per scontri tra eserciti, non contro manifestanti, secondo quanto argomenta.

Da parte sua, Rayén Rovira, professoressa e ricercatrice dell’Università Nazionale e anche membro di questa rete, dice che c’è un “diretto giovanicidio”. Lamenta che la militarizzazione delle città stia facendo sì che i figli delle famiglie sfollate dalla guerra verso le capitali ora siano coloro che stanno soffrendo “questa violenza che i loro padri hanno vissuto nei paesi”.

L’esplosione della Colombia è stata la prima rilevante dopo il blocco che subirono le proteste che si estendevano dall’Ecuador, Cile o Haiti prima della pandemia. Rovira pensa che l’esempio colombiano possa “dare coraggio” agli altri movimenti dell’America Latina per uscire di nuovo nelle strade: “I giovani della Colombia sono stati la scintilla, chi sa se di qualcos’altro che sta arrivando”. 

6 giugno 2021

El Salto

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Víctor LinaresColombia: la generación que perdió el miedo pubblicato il 06-06-2021 in El Salto, su [https://www.elsaltodiario.com/colombia/colombia-la-generacion-que-perdio-el-miedo] ultimo accesso 16-06-2021.

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