Nel seminario “Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista” realizzato lo scorso maggio dall’EZLN, il subcomandante insorgente Galeano ha spiegato che nei prossimi decenni fino al 40% della popolazione del mondo sarà di lavoratori emigranti, ossia approssimativamente tre miliardi di persone, “senza lavoro, senza terra, senza patria, che si spostano da un lato all’altro”. Ci saranno intere zone che saranno distrutte e spopolate per essere ristrutturate e ricostruite dal capitale.
Non tutti né tutte attraverseranno frontiere. Una gran parte sono migranti interni. “Indigeni e contadini si stanno trasformando in migranti senza uscire dalla propria terra di origine”, ha detto Galeano, nel citato seminario. Tutto indica che i muri e i controlli, nemmeno la minaccia di morte, saranno sufficienti a fermare tanti milioni.
Si calcola che quest’anno circa 350 mila rifugiati siano giunti in Europa. Ma alcune previsioni stimano che nella prossima ondata saranno da 3 a 4 milioni, ossia dieci volte di più. È la conseguenza delle guerre in corso, guerre militari e guerre economico-finanziarie. A loro si sommano i rifugiati ambientali.
Si può immaginare all’impatto che una simile ondata avrà sull’Europa. Ma dobbiamo pensare, soprattutto, all’impatto che stanno avendo queste guerre, “guerre di quarta generazione” secondo gli zapatisti, in quelle regioni dove i popoli sono l’obiettivo per appropriarsi dei beni comuni.
Migranti o rifugiati? È un dibattito importante. Il vantaggio del termine rifugiato è che politicizza, mentre quello di migrante è più neutro. In ambedue i casi, nonostante ciò, la nota dominante è che coloro che si trasferiscono da un luogo all’altro non appaiono come soggetti delle proprie vite ma come vittime di una situazione creata e gestita da altri. È l’immagine che i politici e i grandi media vogliono dare: esseri indifesi, passivi, che si muovono contro la propria volontà, che meritano compassione. Per questo l’immagine del bambino siriano morto sulla spiaggia ha avuto una così grande risonanza mediatica.
La realtà dice il contrario. Ci sono tre aspetti che mi sembra necessario mettere in risalto.
Il primo è che i rifugiati/migranti prendono decisioni, sono soggetti delle proprie vite. Molte volte sono soggetti collettivi, giacché la famiglia o la comunità scelgono quello o quelli che devono trasferirsi e quale è la sua destinazione finale. Al contrario dell’immagine che si vuol dare, sono decisioni lungamente preparate, decise con ampie consultazioni di famiglie numerose. Insomma, sono decisioni comunitarie; non sono oggetti gestiti da fili che non controllano.
La seconda questione, è che sono decisioni razionali, né disperate né individuali, per quanto dura sia la situazione che si lasciano dietro. Fanno un calcolo di convenienze, dei vantaggi e degli svantaggi della decisione che prendono. Rimangono sempre dei familiari, vicini, amici, comunità, con i quali continueranno ad avere delle relazioni e, nella maggioranza dei casi, invieranno risorse come modo di mostrare che l’impegno preso, quando hanno deciso l’uscita, viene mantenuto in tutti i suoi termini.
La terza, è che lontano dall’essere un problema per i paesi, le città o le regioni dove giungono, incarnano la possibilità di iniziare, quelli che giungono e quelli che già c’erano, una nuova vita, a scrivere una storia inedita. Il trasferimento di persone in altre terre suole essere doppiamente arricchente: per coloro che emigrano e per le società che li ricevono. Ne è la testimonianza la recente storia dell’America Latina.
I milioni di quechua e aymara che sono giunti a Lima, a El Alto e a La Paz, per esempio, hanno iniziato di nuovo la loro ancestrale lotta per la terra da un altro luogo. Hanno costruito nuove città, hanno oltrepassato le città coloniali e oligarchiche per creare mondi nuovi, quartieri popolari come Villa El Salvador a sud di Lima, la meraviglia di El Alto con la sua storia di insurrezioni e una lotta esemplare per la dignità. Hanno acclimatato la cultura andina alla città, arricchendo ambedue, creando musiche, balli e carnevali altri.
Le villas di Buenos Aires, dove convivono argentini del nord, paraguayani, boliviani e peruviani, sono un crogiolo di culture, un magma di creazioni collettive così forti che né la dittatura militare, nel decennio del 1970, né il governo neoliberista della città, negli ultimi anni, hanno potuto sgomberare.
Non voglio minimizzare il dolore di coloro che prendono la decisione di abbandonare la terra dove sono nati. Per diretta esperienza sappiamo che sono momenti difficili. Ma sappiamo anche che sono dolori del parto. Guardiamo i rifugiati/migranti che appoggiano le Candidature di Unidad Popular in Catalogna, coloro che hanno messo in piedi iniziative come il Movimento per la Giustizia del Quartiere a New York, e tanti altri.
Perché sono soggetti, dobbiamo trovare altri modi di nominarli. Viaggiano per migliaia di chilometri cercando mondi nuovi; creano mondi nuovi nella scia del loro viaggio e nei luoghi dove si stabiliscono, con altri e altre come loro. Dal basso rinforzano e ringiovaniscono le culture, condizione imprescindibile nei processi emancipatori.
5 ottobre 2015
Desinformémonos
Traduzione del Comitato Carlos Fonseca: |
Raúl Zibechi, “Ni refugiados ni migrantes: creadores de mundos otros” pubblicato il 05-10-2015 in Desinformémonos, su [http://desinformemonos.org.mx/ni-refugiados-ni-migrantes-creadores-de-mundos-otros/] ultimo accesso 03-11-2015. |