Colombia: Lasciare le armi non è una festa


Alfredo Molano Bravo

Ho assistito all’abbandono delle armi in una delle cosiddette -per ora- Zone Veredales Transitorie di Normalizzazione, nel Cesar; con più precisione, in una collina da dove si vede Valledupar e tutta quella ricchezza che c’è a sud del ponte Salguero: terre di allevamenti con tre vacche e un ippodromo senza cavalli.

Il giorno era chiaro e umido. Quando è cominciato l’atto, circa 25 guerriglieri stavano soffocando sotto il tetto infuocato di uno degli accampamenti dove alloggiano altri 250. Seduti in qualche modo -più abulici che interessati-, guardavano l’avvenimento in una televisione in pessime condizioni con immagini annebbiate. Al termine hanno pranzato con lenticchie con riso e acqua di panela, come sempre. Il silenzio andava da un lato all’altro. Alcuni guardavano verso la Zona montuosa del Perijá dove avevano vissuto e combattuto. Altri andavano a spasso. Per noi, mi ha detto il comandante Solís Almeida, “questa rottura di palle non è una festa”.

Quelle armi che si erano procurati durante più di mezzo secolo e che erano costate tanto sangue e tanti morti rimanevano depositate nei contenitori dell’ONU. In realtà lasciavano lì, inerti come i fucili, i propri morti. Il saldo di Pirro della guerra. L’abbandono non è stato né il primo né l’ultimo fatto del cammino che hanno intrapreso.

Il primo è stato l’inedita esperienza del cessate il fuoco bilaterale. Allora, anche se non potevano dormire saporitamente, i soprassalti di un bombardamento erano minori e poco a poco la prevenzione è diminuita. Allo stesso tempo, sono diminuiti anche i giri di vigilanza verso l’Esercito, fino a che, da un paio di mesi, le guerriglie si sono riunite. L’immobilità era per loro un’esperienza sconosciuta che ha comportato, di per sé, la perdita della libertà di movimento. E con l’immobilità anche il criterio del tempo è cambiato: ora, la routine ha smesso di avere quel sapore di avventura che così intensi legami crea tra i gruppi guerriglieri e che li fa essere, veramente, un solo corpo. Anche i menù variano. Il Governo gli ha inviato alimenti a cui non erano abituati -muesli con yogurt, per esempio- e che a molti hanno scompigliato l’umore e lo stomaco.

Un cambiamento di fondamentale importanza è stato l’abbandono dell’uniforme mimetica, che, per i più, era identica a quelle dell’Esercito. Era la loro identità di fronte agli altri, quelli che stanno fuori dalla montagna. Con l’uniforme si sentivano parte di un alveare; senza quella, le differenze di sfumatura si sono stabilite. È stata senza dubbio una misura per abituarsi alla vita civile, complicata per la maggioranza. Nella guerra la presenza della morte era quotidiana e l’uniforme lo ricordava; nella quotidianità civile il valore della vita si diluisce e la routine si impadronisce del tempo.

Lasciare l’arma personale, con la quale avevano difeso la propria vita nei combattimenti, con la quale pensavano di stare contribuendo a fondare un mondo nuovo di giustizia e pace, è stato triste. È stato un atto intimo e silenzioso di ciascun guerrigliero e ciascuna guerrigliera, che non poche lacrime è costato. Le guerrigliere avevano un attaccamento emozionale alla propria arma; per le giovani erano come bambole di cui dovevano prendersi cura, pulire, sopportare e tenere in mano. Erano l’orsetto per dormire che dà tanta sicurezza di fronte alla notte. I freddi funzionari dell’ONU hanno strappato nastri, collane, spillette, cinghie e perfino i disegni con cui le ragazze ornavano la canna o il calcio del proprio fucile, e li hanno rimpiazzati con un numero. Un comandante medio, che era andato via per una missione civile, al ritorno ha cercato il proprio fucile nel deposito. Ha trovato un vuoto doloroso. Ha chiesto all’ONU di permettergli di congedarsi dal proprio ferro e di fare una fotografia “insieme”. Il funzionario ha concordato. È stato -ricorda- come quando uno si congeda da un essere amato prima di sotterrarlo: vuol vedere la faccia per l’ultima volta.

*Sociologo, giornalista e scrittore colombiano.

3 luglio 2017

Nodal

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Alfredo Molano Bravo, Colombia: la dejación de armas no es una fiesta” pubblicato il 03-07-2017 in Nodalsu [http://www.nodal.am/2017/07/colombia-la-dejacion-armas-no-una-fiesta-alfredo-molano-bravo/] ultimo accesso 07-07-2017.

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