Assassinano giornalisti per disciplinare i media


Raúl Zibechi

Non sono, non possono essere, effetti collaterali e indesiderati della guerra contro il narcotraffico. I giornalisti critici sono uno degli obiettivi. Non l’unico, perché il principale bersaglio continuano ad essere quelli in basso organizzati. L’assassinio è il modo che hanno quelli in alto, questa complessa alleanza narco-imprenditoriale-statale, per disorganizzare movimenti e per neutralizzare i giornalisti critici e i media (pochi) che li pubblicano. Mi rifiuto di vederlo in un altro modo, per la stessa storia dei media.

Fino ad alcuni decenni fa, fino agli anni 70 o 80 (date alquanto arbitrarie), coloro che mettevano ordine nelle redazioni erano i capisezione: politica, società, cultura, e così via. Il comitato di redazione era una sorte di comitato centrale nei quotidiani e nelle riviste settimanali, che erano i media più diffusi, seguiti e apprezzati da coloro che desideravano informarsi con un minimo di qualità in quanto alle analisi e allo stile.

Il capo di ciascuna sezione era solito riunirsi con il gruppo di giornalisti che doveva dirigere, gli proponeva dei temi e ascoltava qualche osservazione, secondaria perché il potere funzionava dall’alto al basso. Un vecchio giornalista tupamaro, che dopo la dittatura uruguayana faceva l’editore del quindicinale Mate Amargo, soleva dire -mezzo per scherzo, mezzo sul serio- che il “buon giornalista” si limitava a domandare “quante linee” doveva scrivere (fino allora non si menzionavano caratteri) e, soprattutto, se la nota doveva essere “a favore o contro”.

Con gli anni, la crisi delle gerarchie e, soprattutto, del patriarcato, le relazioni nei media (per lo meno nella stampa che è ciò che conosco), hanno subito un forte colpo. A proposito, il comitato di redazione di Brecha oggi è composto solo da donne, la direttrice e le quattro cape di ciascuna sezione, sono donne. E giovani.

Più che un cambio, un vero tsunami che avrebbe lasciato perplessi i giornalisti con i quali ci siamo formati, molti di loro provenienti dalla mitica Marcha, dove scrissero tra gli altri Carlos María Gutiérrez (autore della prima intervista a Fidel nella Sierra Maestra e fondatore di Prensa Latina insieme a Rodolfo Walsh) e Gregorio Selser, che collaborò anche con La Jornada.

Oggi le relazioni sono ben diverse. I e le giornaliste sono soliti prendere l’iniziativa, propongono temi e definiscono i modi di abbordarli, affrontano indagini senza aspettare il visto dei propri capi. Si comportano ogni volta con maggiore autonomia e, anche se possono essere una minoranza, sanno ciò che vogliono e il modo di ottenerlo. Anche se non l’ho conosciuta personalmente, Miroslava Breach deve essere appartenuta a questa stirpe ed essersi abbeverata al medesimo pozzo.

Quello che voglio dire è questo: si assassinano giornalisti invece di fare attentati contro i media, come si faceva prima; e lì sono le decine di giornalisti rinchiusi dalle dittature o l’attentato contro El Espectador a Bogotà fatto dal gruppo di Pablo Escobar, nel 1989, con più di 70 feriti. I giornalisti critici -corrispondenti, fotografi, eccetera- sono un obiettivo in sé stesso, come lo sono i dirigenti dei movimenti antisistema.

Nei 20 anni che durò la guerra del Vietnam (1955-1975) furono uccisi 79 giornalisti (goo.gl/FO3meD), essendo stato il conflitto armato con maggior copertura della stampa nella storia e uno dei più letali, con una cifra di morti che, secondo le fonti, superò i 4 milioni. La cifra contrasta vivamente con i più di 120 giornalisti assassinati in Messico dal 2000, in una situazione completamente differente da quella del sud est asiatico.

L’aumento dei crimini contro i giornalisti fa parte del controllo a cielo aperto che realizza il sistema, per cui si avvale tanto degli apparati armati dello stato come del narco. Il modo di operare è cambiato in modo radicale nel passato mezzo secolo.

A partire dal Vietnam, dove il giornalismo giocò un ruolo rilevante al momento di informare la popolazione, cominciarono a chiudersi le porte. Immagini come quella della bambina nuda che fugge dal bombardamento con il napalm o il filmato di un ufficiale che giustizia con un colpo in testa un guerrigliero disarmato, contribuirono in modo decisivo a rovesciare l’opinione pubblica -in particolare quella statunitense- contro la guerra.

In molti sensi il fracasso del Vietnam fu uno spartiacque. Lì nacquero le “politiche sociali” per mano di Robert McNamara, che era stato segretario della Difesa durante il Vietnam e dopo presidente della Banca Mondiale, che comprese che le guerre non si vincono con le armi. Queste politiche, devastatrici dell’autonomia e autostima di quelli in baso, fino al giorno d’oggi, sono figlie della sconfitta militare yankee.

In quei medesimi anni successero due fatti addizionali che vale ricordare. Uno, il capitalismo contrattacca il movimento operaio con una completa ristrutturazione del lavoro, dalla quale nasce l’automazione nei paesi centrali e la maquila (impresa che importa materiali pagare tasse doganali, li assembla e li esporta, ndt) in quelli periferici.

Due, la guerra contro le droghe fece le sue prime prove contro il partito delle Pantere Negre, negli Stati Uniti alla fine del decennio del 1970, assassinando dirigenti e sviluppando il cosiddetto “Programma di Controintellegenza”, per annichilire un’organizzazione che aveva conseguito profondi legami comunitari. I quartieri neri furono inondati di droghe per mano della FBI, come parte della lotta contro la “ribellione”.

A proposito, è necessario ricordare che nel 2004 il giornalista californiano Gary Webb fu “suicidato”, probabilmente dai servizi di intelligence statunitensi, per le sue indagini che misero in evidenza le connessioni della CIA con la massiccia vendita di crack nei quartieri neri per finanziare le guerre illegali del Pentagono.

É evidente che l’alleanza narco-stato-borghesia gode di buona salute, essendo uno dei più solidi pilastri dei regimi chiamati “democrazie”. Nonostante l’orrore, non dobbiamo perdere la bussola: gli assassinii fanno parte di una guerra contro i popoli. Non uccidono perché sono giornalisti ma per il loro impegno con quelli in basso.

31-03-21017

La Jornada

Traduzione del Comitato Carlos Fonseca:
Raúl Zibechi, Asesinan periodistas para disciplinar medios” pubblicato il 31-03-2017 in La Jornadasu [http://www.jornada.unam.mx/2017/03/31/opinion/018a1pol] ultimo accesso 04-04-2017.

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